Bruxelles – La voglia di mettere ordine alla politica comune di gestione di flussi di migranti c’è, ma che si possa trovare un’intesa non è scontato. La proposta uscita dal Consiglio dell’Ue non sembra convincere l’Aula del Parlamento europeo, con gruppi divisi al proprio interno e dinamiche tipiche degli Stati membri che tendono a riproporsi anche nell’istituzione comunitaria che rappresentativa degli Stati non è, o almeno non dovrebbe. Eppure gli eletti in Polonia e Ungheria confermano l’intenzione di smontare il pacchetto chiuso, non senza difficoltà, dalla presidenza svedese di turno.
“La Polonia ha già accolto tanti rifugiati ucraini”, taglia corto Patryk Jaki, dei conservatori (Ecr). Un modo per ribadire una volta di più che Varsavia non intende piegarsi ai diktat europei di farsi carico di richiedenti asilo. Un messaggio espresso anche dall’europarlamentare di Fidesz, Kinga Gal, contraria all’idea di dover pagare 20mila euro per ogni migrante non preso in carico. “Chi si rifiuta di prendere migranti saranno puniti e obbligati a pagare. L’Ue non impara dai suoi errori”.
Voci critiche si levano anche dai banchi dei Verdi, ma per diversi motivi. Tineke Strik critica l’accordo raggiunto in Consiglio Ue. “I diritti umani non possono essere pagati”, dice a proposito dell’idea di far sborsare i 20mila euro per richiedente asilo. Per questo “dobbiamo rifiutare questo accordo tossico e assumerci finalmente la responsabilità”.
Stesse riserve si registrano tra i socialisti (S&D). “Il principio dei soldi per migranti è disgustoso” critica Elisabetta Gualmini (Pd), contraria anche agli sforzi sulla cosiddetta ‘dimensione esterna‘ della questione migratoria. “I rimpatri sono diventati un’ossessione, sembra che l’unica cosa che conti davvero siano i respingimenti”. Va all’attacco anche della Commissione e della sua presidente, Ursula von der Leyen, in missione a Tunisi per cercare un accordo sui flussi. “La Tunisia è uno Stato autoritario”. La presidente del gruppo, Iratxe Garcia Perez, invece punta il dito sul Ppe: “Basta alimentare un sentimento anti-migranti”.
Ma nei Popolari l’approccio sembra essere quello non tanto di una gestione di chi arriva, quanto di evitare gli arrivi. “Va protetta la dignità umana, il che vuol dire fermare il traffico illegale di esseri umani e proteggere le nostre frontiere esterne”, insiste Paulo Rangel, convinto che ci sia “la necessità di incoraggiare le persone a rimanere dove sono”. Se Tomas Tobe promette che come popolari “saremo costruttivi” nel dibattito, conferma che “la politica d’immigrazione che funziona” per il centro-destra europeo si traduce in “controllo delle frontiere esterne e meno migranti irregolari”.
Una visione che crea una saldatura con Conservatori e sovranisti, della stessa idea. Sia Nicola Procaccini (FdI/Ecr), sia Marco Zanni (Lega/Id) puntano su più controllo delle frontiere esterne, “meno partenze per più sicurezza dei nostri cittadini”.
Ragionamenti e interventi che provocano la levata di scudi di Verdi e Sinistra radicale. La green Terry Reintke censura quello che definisce “un dibattito tossico sull’immigrazione”. Non accetta la logica del “più muri, meno gente”. Come non la accetta il co-presidente de laSinistra. Martin Schirdewan vede “l’Unione europea che si comporta come Donald Trump”, un riferimento all’ex presidente degli Stati Uniti deciso a erigere un muro anti-migranti lungo il confine con il Messico.
Dal dibattito, animato, sembra emergere un’alleanza Verdi-Sinistra-Liberali per una diversa concezione della politica migratoria e di asilo. Il primo vicepresidente di Renew Europe, Malik Azmani, pronuncia un vero e proprio atto d’accusa nei confronti di buona parte dell’Aula. “Qualcuno crede che l’immigrazione sia una questione di numeri, un questione tra ‘noi e loro’, qualche deputato se ne preoccupa per far crescere i sondaggi”. Ma, enfatizza, “l’immigrazione riguarda le persone”. Come Ue “dobbiamo fornire sostegno”. E, chiarisce, “l’immigrazione è gestibile”. Un invito a trovare un accordo, a farsi carico di quanti arrivano.
Per questo la Commissione decide di accelerare e forzare la mano. C’è un punto di partenza che rappresenta un passo avanti su un dossier sempre delicato quanto divisivo. Maros Sefcovic, commissario per le relazioni inter-istituzionali, invita a “intensificare i negoziati”. E’ convinto che “gli Stati membri possono trovare un’ampia maggioranza qualificata” su un tema dove non è richiesta l’unanimità, aggirando così le resistenze di Polonia e Ungheria. “Vogliamo un accordo entro la fine del mandato”. Ma a giudicare dal dibattito in Aula, non è affatto scontato.