Bruxelles – Un testo approvato cambiando la dicitura, per non rischiare una figuraccia. Il progetto di conclusioni del Consiglio dell’Ue sulla protezione delle persone Lgbtq+ sul territorio dell’Unione Europea è stato adottato come “conclusioni della Presidenza” perché Polonia e Ungheria – gli stessi due Paesi membri Ue da anni sotto accusa nell’Unione per le discriminazioni sui rispettivi territori nazionali – hanno impedito di raggiungere l’unanimità sullo stesso testo presentato inizialmente come “conclusioni del Consiglio” nel corso della riunione di oggi (9 giugno) a Lussemburgo dei 27 ministri della Giustizia.
Un testo bilanciato, che si basa sulla definizione dei principi basilari per la tutela di tutte le persone, senza discriminazioni per la comunità Lgbtq+: l’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea “vieta esplicitamente qualsiasi discriminazione basata sul sesso e sull’orientamento sessuale”, mentre è responsabilità degli Stati membri “garantire la sicurezza di tutti i gruppi in situazioni di vulnerabilità, anche individuando eventuali carenze nella loro protezione”. Tuttavia, proprio per l’opposizione dall’inizio delle discussioni di Varsavia e Budapest, la possibilità di compromesso si è arenata e la stessa presidenza di turno svedese del Consiglio dell’Ue ha deciso di non metterlo ai voti (permettendo al governo Meloni di non schierarsi palesemente contro i suoi due più stretti alleati in Consiglio). Ecco perché le “conclusioni della Presidenza” si aprono con la precisazione che il documento è sostenuto da 25 delegazioni, senza votazione da parte dei Ventisette.
Per quanto riguarda il testo concordato tra i 25 ministri, l’impegno fondamentale è quello di “sostenere il diritto di essere al sicuro da violenze, molestie e discriminazioni“, inserendo nell’agenda politica di ciascuno Stato le politiche di contrasto a queste violazioni anche nei confronti di persone della comunità Lgbtq+ e basandosi sulle relazioni presentate dalla Commissione, dall’Agenzia per i diritti fondamentali e da altri organismi e istituzioni competenti. Gli stessi Paesi membri Ue sono invitati a garantire che le amministrazioni nazionali, “comprese le forze dell’ordine, le autorità giudiziarie e gli organismi per la parità”, siano “specificamente e sufficientemente attrezzate” per proteggere e promuovere i diritti Lgbtq+. La protezione si estende sia nella sfera online sia in quella offline “da crimini d’odio, discorsi d’odio, atti di violenza e pratiche dannose”. Qui rimane tra le righe una condanna a Budapest per la legge che tutela chi denuncia le coppie Lgbtq+: tra le “pratiche dannose e di conversione” compaiono anche i metodi per “identificare, registrare e indagare sui reati commessi con un movente anti-Lgbtq+” e “incoraggiando la denuncia di tali reati da parte di vittime e testimoni”.
Non passa inosservato il riferimento al contrasto alla diffusione di “narrazioni cospirative e l’influenza maligna dell’informazione sulle persone Lgbtq+”, altro punto debole per Budapest e Varsavia. Tutti i Ventisette sono invitati a “costruire capacità di identificare, prevenire e contrastare le interferenze straniere, la manipolazione dell’informazione, la disinformazione e l’informazione scorretta”, a tutela delle comunità discriminate. In questo contesto si inseriscono anche le misure da adottare per garantire la “libertà di espressione, di riunione pacifica e di associazione a tutti i livelli senza temere violenze, molestie o qualsiasi forma di coercizione o restrizione ingiustificata”. Ultimo affondo – ma questa volta indirizzato principalmente a Varsavia – sulla salvaguardia della dignità e dei diritti umani per “tutte le persone che sono fuggite dalla guerra di aggressione russa contro l’Ucraina“, considerato “l’aumento del rischio di vulnerabilità a cui possono essere soggetti tutti i rifugiati e i richiedenti asilo Lgbtq+” che si sono rifugiati in Paesi vicini come la Polonia.
L’Ungheria contro i diritti Lgbtq+
È dall’estate del 2021 che si è acceso lo scontro tra Bruxelles e l’Ungheria sul tema dei diritti Lgbtq+, quando la presidente della Commissione von der Leyen ha definito “una vergogna” la legge del governo di Vitkor Orbán che vieta di affrontare temi legati all’omosessualità in contesti frequentati dai minori. Il referendum sulla stessa legge anti-Lgbtq+, convocato dal premier ungherese nel luglio del 2021 proprio per trovare il consenso popolare sulla sua iniziativa, si è risolto in un fiasco il 4 aprile 2022: gli elettori ungheresi, pur riconfermando la fiducia nel partito Fidesz alle elezioni parlamentari dello scorso anno, lo hanno boicottato. Solo il 44,46 per cento ha espresso un voto valido, non raggiungendo il quorum richiesto per avallare la proposta legislativa del governo.
A questa sconfitta interna si è aggiunta la continua pressione da Bruxelles, con una procedura d’infrazione avviata il 15 luglio del 2021 e che a breve dovrebbe portare alla sentenza della Corte di Giustizia dell’Ue. Quasi due anni fa l’esecutivo comunitario ha inviato a Budapest una lettera di costituzione in mora, dando due mesi di tempo per rispondere nel merito. Dopo il parere motivato fatto recapitare al governo Orbán, lo scorso 13 febbraio è arrivato il deferimento alla Corte di Giustizia dell’Ue, dal momento in cui il Paese membro non ha corretto la propria legislazione nazionale per rispondere alle preoccupazioni sollevate dal gabinetto von der Leyen sul rispetto dei Trattati fondanti dell’Ue. La causa della Commissione è sostenuta dal Parlamento Europeo e da 15 Paesi membri: Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, Irlanda, Lussemburgo, Malta, Paesi Bassi, Portogallo, Slovenia, Spagna e Svezia.
La Polonia contro i diritti Lgbtq+
Anche per la Polonia lo scontro con Bruxelles si è accentuato dal luglio del 2021 con la procedura d’infrazione lanciata dalla Commissione contro le cosiddette ‘zone libere dall’ideologia LGBT+’. Una pratica che in Polonia è cresciuta dal 2019, fino a contare cinque regioni e 100 tra città e paesi a forte tradizione cattolica che insieme coprono una superficie pari a un terzo del Paese. Secondo l’esecutivo comunitario queste dichiarazioni “possono violare il diritto comunitario in materia di non discriminazione per motivi di orientamento sessuale“.
A poche settimane dall’azione della Commissione quasi tutte le regioni polacche hanno fatto marcia indietro, a causa del rischio di perdere i 126 milioni in fondi europei erogati attraverso il programma React-EU, l’iniziativa di assistenza alla ripresa per la coesione e i territori dell’Unione. Ma i pericoli in arrivo da Varsavia si sono ripresentati con il tentativo di adottare il progetto di legge ‘Stop Lgbt’, che ha fissato l’obiettivo di “fermare la propaganda omosessuale nello spazio pubblico”. In altre parole, con la legge in vigore sarebbe illegale il Pride, sarebbe vietato mettere in discussione il matrimonio come unione tra un uomo e una donna e promuovere orientamenti sessuali diversi dall’eterosessualità. Con il termine “promuovere” si intendono tutte le forme di diffusione, agitazione, lobby, dichiarazioni, aspettative, richieste, raccomandazioni a favore dei diritti Lgbtq+.