Bruxelles – La riforma della giustizia varata in Polonia nel 2019 viola il diritto dell’unione perché non tutela lo stato di diritto e l’effettiva e l’indipendenza della magistratura. In particolare questa riforma impedisce ai magistrati di valutare l’indipendenza dei colleghi, aveva creato una Camera disciplinare per (eventualmente) punire i giudici sulla base delle loro sentenze ed obbligata i magistrati a rendere pubbliche tulle le loro affiliazioni a partiti politici o ad organizzazioni civiche. Lo ha stabilito oggi una sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione.
La Commissione europea ha proposto un ricorso per inadempimento, chiedendo alla Corte di giustizia di dichiarare che il regime istituito da questa legge viola diverse disposizioni del diritto dell’Unione. In particolare la Commissione ritiene che la legge di modifica, nei limiti in cui attribuisce alla Sezione disciplinare della Corte suprema polacca, la cui indipendenza e la cui imparzialità non sono garantite, la competenza a decidere in merito a controversie aventi incidenza diretta sullo status e sull’esercizio delle funzioni di giudice, pregiudichi la loro indipendenza.
Inoltre, secondo la Commissione, la legge di modifica vieta a tutti gli organi giurisdizionali nazionali di verificare il rispetto dei requisiti dell’Unione relativi a un giudice indipendente e imparziale, precostituito per legge, ed eleva una siffatta verifica a illecito disciplinare. La Sezione di controllo straordinario e delle questioni pubbliche della Corte suprema polacca viene dichiarata competente in via esclusiva a eseguire queste verifiche. Infine, la Commissione afferma che la legge di modifica, imponendo ai giudici l’obbligo di comunicare informazioni relative alle loro attività nell’ambito di associazioni o fondazioni, nonché a una precedente appartenenza politica, e prevedendo la pubblicazione di tali informazioni, viola il diritto al rispetto della vita privata e il diritto alla protezione dei dati personali.
Durante il procedimento la Polonia è stata condannata, già nell’ottobre 2021, a pagare alla Commissione una penalità di un milione di euro al giorno, poi nel 2023 l’importo della penalità è stato ridotto a 500.000 euro al giorno. La penalità cessa da oggi, ma la Polonia dovrà pagare tutte le somme previste e con ancora corrisposte.
Nella sua sentenza odierna, la Corte accoglie il ricorso della Commissione. Ribadendo che la tutela dello stato di diritto rientra tra i compiti dei magistrati europei, la Corte ha confermato che la Sezione disciplinare della Corte suprema non soddisfa il necessario requisito di indipendenza e di imparzialità. “Essa – spiega la Corte – ne deduce che la semplice prospettiva, per i giudici chiamati ad applicare il diritto dell’Unione, di correre il rischio che un siffatto organo possa decidere in merito a questioni relative al loro status e all’esercizio delle loro funzioni, in particolare autorizzando l’avvio di procedimenti penali nei loro confronti o il loro arresto oppure adottando decisioni riguardanti aspetti fondamentali dei regimi di diritto del lavoro, di previdenza sociale o di pensionamento ad essi applicabili, è idonea a pregiudicare la loro indipendenza”.
Inoltre la Corte ritiene che, in considerazione del carattere relativamente ampio e impreciso delle disposizioni della legge di modifica denunciate dalla Commissione e del contesto particolare in cui tali disposizioni sono state adottate, “esse si prestano a un’interpretazione che consente che il regime disciplinare applicabile ai giudici, nonché le sanzioni previste da tale regime, siano utilizzati per impedire agli organi giurisdizionali nazionali di valutare se un organo giurisdizionale o un giudice soddisfino i requisiti riguardanti la tutela
giurisdizionale effettiva derivanti dal diritto dell’Unione, se del caso interrogando la Corte in via pregiudiziale”. Dunque le misure sono incompatibili con le garanzie di accesso a un giudice indipendente, imparziale e precostituito per legge.
Infine, secondo la Corte, le disposizioni nazionali che impongono ai giudici di presentare una dichiarazione scritta indicante la loro eventuale appartenenza a un’associazione, a una fondazione senza scopo di lucro o a un partito politico e che prevedono la pubblicazione on-line di tali informazioni “violano i diritti fondamentali dei giudici alla tutela dei dati personali e al rispetto della vita privata”.