L’Unione europea negli ultimi anni è stata in grado di dare sostanziali prove di robustezza e di rapidità nelle decisioni. Sono questi, a mio giudizio, i risultati politici-istituzionali più rilevanti di questi due o tre anni che hanno visto susseguirsi l’abbandono della Gran Bretagna, la pandemia, la guerra della Russia in Ucraina, significativi spostamenti verso posizioni meno europeiste di alcuni governi e, non ultima, l’uscita di scena di Angela Merkel.
Scossoni violenti, per lo più inattesi, ai quale i Ventisette hanno saputo reagire mantenendo una sostanziale unità e una comunità di obiettivi, prendendo decisioni spesso dolorose per alcuni, e comunque difficili per tutti.
Non può essere però solo la capacità di risposta a una situazione d’emergenza il metro sul quale si misura l’efficienza di un sistema.
Negli ultimi anni si è poi sviluppato un fenomeno complesso, probabilmente non ancora bene analizzato, che è l’atteggiamento dei cittadini nei confronti dell’Unione e delle sue istituzioni. Ormai la stragrande maggioranza degli europei, non solo di quelli degli Stati fondatori, è nata nell’Unione, non ha la capacità di confrontare il prima ed il dopo sulla base dell’esperienza vissuta. Da una parte questo porta ad un senso di “normalità” dell’essere nell’Ue, ma da un’altra, almeno per alcuni, comincia a far sentire il peso di far parte di un qualcosa sulle cui scelte non si sente di avere voce in capitolo e di cui non si capisce bene il funzionamento.
Efficienza e partecipazione dei cittadini, anche in vista della nuova dimensione a 28,29,30 e forse più Paesi membri entro i prossimi dieci anni. Vorrei concentrami su questi due aspetti nel pensare a cosa serve all’Unione del futuro ormai prossimo: la capacità di reazione, ma anche di proposta ordinaria, e la partecipazione dei cittadini. Due elementi che, combinati insieme, possono dare anche una risposta ad un tema da sempre dibattuto, ovvero la trasparenza dell’Unione, delle sue istituzioni, dei suoi processi decisionali.
I temi sul tappeto circa la capacità operativa dell’Unione sono molti, si va dalla proposta di unificazione delle cariche di presidente della Commissione e di presidente del Consiglio, all’attribuire capacità di iniziativa legislativa al Parlamento, a nuove formule per l’elezione dei deputati europei.
Vorrei però concentrarmi solo su uno dei temi, che è quello dell’integrazione differenziata. Della possibilità cioè di procedere a velocità diverse all’interno dell’Unione, mantenendo però il focus sulla parola “integrazione”: il processo non deve essere escludente ma solo “anticipante”.
È un metodo di lavoro già usato, fa parte degli strumenti dell’Unione, si chiama “cooperazione rafforzata”. Un esempio di questo metodo di lavoro è quello dell’introduzione dell’euro, che ha visto un nucleo “fondatore” seguito poi nel tempo da nuove adesioni, l’ultima, nel 2023, della Croazia, ma anche il processo di Schengen ne è un esempio noto, benché qui la strada sia stata quella dell’accordo intergovernativo, di per sé già meno trasparente. Insomma, ci possono essere, ci sono, temi sui quali alcuni Stati, per i motivi più diversi, si sentono pronti a procedere ed altri invece hanno bisogno di più tempo o, in casi estremi ed eccezionali, se ne chiamano fuori.
La cooperazione rafforzata è stata usata in pochi casi, spesso su materie minori e certo l’integrazione differenziata deve avere delle sue regole, che derivano tutte da quella di base: tutti sono i benvenuti nel processo, che arrivino prima o dopo.
Di fatto ci sono numerose questioni sulle quali alcuni Paesi si trovano ad essere su posizioni più avanzate rispetto ad altri, vuoi in politica estera, su fronti economici, su diritti della persona (attenzione, spesso su questi temi è necessaria l’unanimità in Consiglio, ricordando che un’astensione non invaliderebbe l’unanimità). Alle volte alcuni governi possono convergere su posizioni sulle quali altri arrivano più tardi.
Però sono necessarie regole: di numero di Paesi che lanciano il processo, che il processo si svolga all’interno del quadro costituzionale e normativo dell’Unione, che tutto si svolga in maniera trasparente ed inclusiva in ogni suo passaggio. È anche necessario che un’iniziativa non provochi danni in altri Paesi. Non dovrebbe essere possibile, per intenderci, lanciare un processo che avvantaggia alcuni ma peggiora le condizioni e le prospettive che altri hanno nel momento del lancio dell’intesa.
Ci vogliono anche, naturalmente, numeri “minimi” di partenza: non possono nascere progetti di integrazione differenziata senza una forza consistente, tale per lo meno da far immaginare che altri arriveranno. Dove, in sostanza essere garantito un numero minimo, probabilmente maggioritario, di Paesi e di cittadini (con vincoli di presenza di “grandi” e piccoli” Paesi, e probabilmente anche di carattere geografico) perché un percorso di integrazione differenziata possa essere lanciato all’interno del sistema Ue.
Di fatto poi i progetti di successo, come è stato per l’euro, nel tempo attireranno altri partner, con l’obiettivo sempre esplicito anche se non sempre raggiungibile, di un’adesione unanime.
Un’Unione grande, che a quanto pare è destinata a diventare ancora più grande, avrà sempre più difficoltà a decidere tutto e sempre tutti insieme. Il quadro deve essere comune, il progetto deve restare comune, ma esistono molti settori nei quali o alcuni Paesi sono più avanzati nell’elaborazione o hanno emergenze diverse, e frenare non è mai la risposta migliore.
C’è poi la questione della partecipazione dei cittadini. Già un’integrazione differenziata potrebbe probabilmente far sentire le persone più vicine alle scelte, quando sentono che i temi le riguardano, e meno abbandonate quando l’Unione non riesce a dare risposte.
Il tema però è trovare il modo per far sentire i cittadini (elettori) più vicini alle istituzioni e dunque alle scelte dell’Unione. Non sto parlando qui di “informare meglio” le persone di come funziona l’Unione, di fargli fare dei viaggi al Parlamento europeo. La questione è coinvolgerli nelle scelte.
Diciamo la cruda verità: il Parlamento, i deputati europei, non hanno fatto molto per coinvolgere i cittadini nelle scelte, e spesso anche loro sembrano presi più da questioni di politica interna, di visibilità, che di concreta partecipazione al divenire dell’Unione. Questo, a mio avviso, è dovuto anche agli scarsi poteri che il Parlamento ha, alla scarsa visibilità che riesce a dare al suo lavoro, il che “deresponsabilizza” i suoi membri.
Ci sono però delle strade da tentare su questo fronte, che non sono solo l’aumento dei poteri del Parlamento.
Si è tentato l’esperimento della Conferenza sul Futuro dell’Europa. Per molti motivi, non ultimo la fretta con la quale si è svolta, l’iniziativa è stato un sostanziale fallimento, probabilmente la percentuale di europei che sa che si è svolta è prossima a cifre che stanno nelle dita di una mano. Però si è svolta, un seme è stato gettato, ed è stato raccolto, almeno simbolicamente, dal presidente francese Emmanuel Macron con il cancelliere tedesco Olaf Scholz, i quali, in occasione dei 60 anni del Trattato dell’Eliseo, hanno scritto che “Perché un’Unione europea allargata funzioni, dobbiamo mettere in atto un processo decisionale efficace e rispondere alle aspettative espresse dai cittadini europei durante la Conferenza sul futuro dell’Europa”.
Sul processo però c’è molta incertezza, sul dove possa portare ma anche proprio sugli obiettivi da raggiungere. Un punto però deve essere chiaro: un progetto di questo tipo non deve essere una estemporanea consultazione dei cittadini sui temi più diversi. Deve essere una costante consultazione di assemblee transnazionali di cittadini sulle grandi opzioni che l’Unione si trova davanti. Non sui piccoli temi, per dirne uno in voga ora in Italia “il Pos o il contante”, ma le relazioni con altre potenze, i diritti civili, le migrazioni, il lavoro…
Certo, il lavoro avrà molti aspetti casuali, la formazione delle assemblee dei cittadini dovrà avere dei criteri, certo, come la distribuzione geografica, l’età, il livello di istruzione, ma non potrà garantire una distribuzione “politica” che rispecchi le forze in campo nell’Unione. Ma se le selezioni saranno fatte con criterio, se saranno frequenti, per la legge dei grandi numeri alla fine saranno uno specchio piuttosto fedele della società europea.
Una maniera di coinvolgere maggiormente i cittadini e di responsabilizzare i parlamentari sarebbe certamente quella di dare un potere di iniziativa legislativa al Parlamento. Attualmente esiste una sola forma di coinvolgimento diretto dei cittadini nei confronti delle istituzioni, è l’Ice (Iniziativa dei cittadini europei) una complicata raccolta di firme che consente a un milione di cittadini provenienti da un quarto degli Stati membri dell’Ue di chiedere alla Commissione di prendere in considerazione di presentare una proposta legislativa in un settore di sua competenza. Ma è un percorso non strutturato, accidentato, molto indiretto, senza sbocchi certi, poco utile di fatto.
Dare al Parlamento la possibilità di proporre una legislazione è invece un coinvolgimento diretto dei cittadini, che con i loro deputati dialogano (forse non abbastanza) e possono sentirsi titolari di un potere di influenza reale.
Efficienza decisionale e partecipazione in un’Unione che si allarga sono due temi centrali e connessi. Una pratica di scambio, e non solo a livello nazionale, potrebbe portare anche ad un atteggiamento diverso dei parlamentari nel loro lavoro a Bruxelles e Strasburgo, che troppo spesso appare rivolto in gran parte a trovare soddisfazioni per le loro constituency nazionali e forse meno al lavoro “europeo”. Un confronto con i cittadini stabile ed a largo raggio, basato sulla conoscenza delle questioni sul tavolo e delle loro implicazioni, farebbe emergere sensibilità maggiori che non quelle del primario interesse nazionale, o spesso locale.
Questo testo è stato estratto dal Dibattito “Verso una nuova fase dell’Unione europea“, pubblicato dal Centro studi di politica internazionale (Cespi).