Bruxelles – Colpisce molti tra uomini e donne, interessa praticamente ogni organo interno. Dal sistema nervoso centrale all’apparato digerente, dal cuore all’apparato respiratorio, fino a quello circolatorio e pure quello riproduttivo, maschile come femminile. il fenomeno noto come ‘long-Covid’, vale a dire il persistere dei sintomi e dei disturbi anche dopo 4 settimane dall’infezione, è più di un rebus. Poche informazioni chiare, difficoltà nella mappatura mondiale. La commissaria per la Salute, Stella Kyriakides, ha acceso i riflettori su una sfida che è sanitaria, ma anche economica e politica. Adesso il centro studi e ricerche del Parlamento europeo conferma i timori: “Il long COVID è un grosso problema”.
C’è una questione di numeri, innanzitutto. Lo studio realizzato per conto della commissione speciale COVID dell’Eurocamera evidenzia “l’unicità” del fenomeno. A seguito della pandemia “miliardi di persone” sono state infettate da SARS-CoV-2 in breve tempo. “Pertanto, la portata del long COVID lungo è molto più ampia di qualsiasi cosa vista prima“. Anche ammettendo che presto o tardi il Coronaviurs scomparirà, è convinzione degli analisti che le persone che soffrono delle conseguenze a lungo termine delle infezioni acute rimarrebbero.
Dati alla mano, solo tra il 2020 e il 2021 il perdurare dei disturbi tipici del Covid in Europa ha interessato 17 milioni di persone, e circa 65 milioni sono quelle che ne hanno sofferto in tutto il mondo. Le previsioni stimano che 20 milioni di europei soffriranno di long Covid entro la fine di marzo 2023, con senso di spossatezza, tossetta permanente, sinusite intermittente e tanto altro ancora. In prospettiva, “in media circa il 10 per cento delle persone affette da COVID-19 svilupperà un COVID di lungo decorso” con tutte le conseguenze del caso. Economiche, innazitutto.
L’Unione europea ancora non si è fatta i suoi calcoli, ma si stima che il long COVID rappresenti per gli Stati Uniti un costo di 3,7 trilioni di dollari in 5 anni, e di 2,5 miliardi di sterline all’anno e nel Regno Unito. Una pressione che si esercita soprattutto sui sistemi sanitari nazionali, dato che, come detto, il long COVID può colpire tutti i sistemi di organi. Un carattere multisistemico che rende la ricerca “ancora più complicata”. Oltretutto questa pressioni si aggiunge ad una già esistente, rappresentata dai casi di depressione post-infezione, già tanti e difficili da valutare con esattezza per entità e gravità.
Il problema è che del fenomeno long Covid si conosce poco e quindi si fa fatica ad orientarsi. Sembra consolidata la definizione clinica della patologia, secondo cui si tratta di una “malattia derivata da una storia di infezione da SARS-COV-2 confermata o probabile, con sintomi che si verificano di solito tre mesi dall’insorgenza di COVID-19 e che durano per almeno due mesi”. I sintomi includono affaticamento, mancanza di respiro, disfunzione cognitiva, ma possono insorgere molti altri sintomi, con comprovata riduzione della qualità della vita. I sintomi possono avere una nuova insorgenza o continuare dall’infezione da COVID-19 e non possono essere attribuiti a nessuna diagnosi alternativa.
Ciò detto, manca una spiegazione del fenomeno. Esistono diverse ipotesi attualmente indagate come possibili cause di COVID di lunga durata. Queste includono la persistenza del virus nel corpo, la risposta del sistema immunitario, la disfunzione mitocondriale, o ancora segnalazione neurologica disfunzionale, affezione del sistema nervoso autonomo, disfunzione endoteliale, riattivazione di EBV o coagulazione del sangue). Ma sono tutte supposizioni, e qui l’intervento della politica, con risorse adeguate per una ricerca capillare e accusare, gioca un ruolo di assoluto rilievo. “Una migliore comprensione delle cause del COVID di lunga durata è fondamentale per sviluppare un trattamento e una cura ottimali per il paziente”, rileva lo studio. Che conferma la validità dei sieri.
“La vaccinazione sembra ridurre il rischio di sviluppare COVID di lunga durata dal 15 per cento al 50 per cento“. Questa è una scoperta a detta degli autori dello studio “rilevante” a sostegno della vaccinazione dei giovani, categoria meno a rischio da contrazione di un’infezione acuta ma comunque non immuni al rischio di poter sviluppare il long COVID. Una certezza, in un contesto di grandi incognite.