Bruxelles – Rischi contro danni, tutela della salute pubblica e salvaguardia della catena di valore vitivinicola italiana. All’evento L’evoluzione dell’agroalimentare italiano ed europeo tra sostenibilità e benessere – organizzato oggi (9 marzo) a Roma da Eunews e Gea – Green Economy Agency, entrambe parte del gruppo Withub – si riaccende la questione delle etichette irlandesi sul vino e sulle altre bevande alcoliche. Una questione particolarmente spinosa, che ha animato il secondo panel dell’evento dal titolo ‘Avvertenze sanitarie sulle etichette degli alcolici. L’impatto sulla salute e quello sul settore vitivinicolo’.
“Dobbiamo definire il livello di allarme da tenere, con laicità ma anche con una partecipazione molto forte”, è stato l’avvertimento dell’eurodeputata in quota Lega Elena Lizzi, illustrando lo stato dell’arte sulle etichette per vino e altre bevande alcoliche in Irlanda. Il 21 giugno dello scorso anno Dublino ha notificato alla Commissione Europea e agli altri 26 Paesi membri dell’intenzione di introdurre nuove norme e regolamenti sull’etichettatura delle bevande alcoliche sul suo territorio nazionale, con i cosiddetti health warning (avvertenze sanitarie obbligatorie sia visive sia testuali sulle etichette delle bottiglie). Nel periodo di valutazione di sei mesi sono emersi i pareri contrari “anche dell’Italia, ovviamente”, ha puntualizzato Lizzi, puntando il dito sul silenzio-assenso dell’esecutivo comunitario, che ha portato come conseguenza al via libera il 22 dicembre. “Negli ultimi anni la Commissione ha lasciato passare alcuni percorsi in netto contrasto con il nostro modo di vivere basato sulla dieta mediterranea“, è l’attacco dell’eurodeputata membro della commissione per l’Agricoltura e lo sviluppo rurale (Agri), ricordando che “ci siamo battuti per un passo indietro, ma penso ci riproveranno ancora”.
Duro anche il direttore generale del Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea), Stefano Vaccari: “L’Italia è contraria sul focalizzarsi sull’impatto di un singolo alimento, noi siamo il Paese di una dieta, quella mediterranea, non di singoli prodotti”. Il focus è proprio sulla dieta mediterranea, “un modello nutrizionale rimasto costante nel tempo, accompagnato anche dal vino”, che si caratterizza come “parte dello stile di vita e della salute italiana, che ne ha fatto il primo Paese Ue e il quarto nel mondo per aspettativa di vita“. È per questo motivo che, secondo Vaccari, “se un modello nutrizionale si dimostra vincente, dobbiamo mantenerlo, vino compreso”. La conseguenza per quanto riguarda il tema delle etichette è di “sganciare il vino da concetto di rischio alcolico, noi ne consumiamo meno rispetto agli altri Paesi”. Con una conclusione che sa di profezia drammatica: “Se perdiamo la battaglia dell’etichettatura, perdiamo l’Italian way of life“.
Per fornire alcuni dati sul consumo di alcol in Italia, in particolare tra i più giovani, è intervenuto il segretario generale Osservatorio permanente sui giovani e l’alcol, Michele Contel. “Tra i 15 e i 24 anni, il 78 per cento dei ragazzi ha consumato almeno una volta nella vita alcol, ma solo il 24 ha sperimentato uno stato di ubriachezza e il 32 il binge drinking, ovvero un consumo di 5/6 volte in un breve intervallo di tempo”, ha spiegato Contel, sottolineando che “l’età minima legale è importante e il contesto politico-sociale maturo sa che non si può far finta dei danni correlati, ma distinguendo tra uso e abuso“. È per questo motivo che bisogna perseguire un approccio cauto, ma “non uno restrittivo come quello irlandese, che inverte l’onere della prova”, ha aggiunto il vicepresidente dell’Osservatorio: “È coercitivo e assimila il rischio con il danno, scientificamente è scorretto”.
La scienza sulla questione delle etichette del vino
Parlando di scienza, è necessario però mettere in fila ciò che secondo la medicina è un approccio più o meno corretto all’alcol in generale e al vino in particolare, anche quando si considerano gli avvertimenti sui rischi. “La comunicazione sul consumo di bevande alcoliche è delicatissima, ma bisogna ricordare che non esiste un quantitativo o modalità di consumo esente da rischi“, ha messo in chiaro la dietista nutrizionista Monica Artoni, intervenendo nel dibattito. E se in termini di gradazione vino e superalcolici non sono uguali, “in Italia si bevono quantitativi maggiori di vino e birra e così il rischio si pareggia”. Nessuno nega che si tratti di “bevande piacevoli e della tradizione, ma la medicina non può creare alibi di salute“, ha sottolineato con forza Artoni. In altre parole, “esistono rischi per la salute e noi dobbiamo insistere molto sul concetto di basso rischio e sulle modalità di consumo, soprattutto tra i giovani”.
Secondo i livelli di rischio raccomandati dall’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), il “basso rischio è un consumo giornaliero inferiore ai 10 grammi per donne e over 65 e ai 20 grammi per un uomo adulto”, vale a dire rispettivamente una o due “unità alcoliche di riferimento”: una lattina di birra, un bicchiere di vino, o un bicchierino di superalcolico. “Bisogna tenere in considerazione l’impatto sulla sanità pubblica”, perché “nessuno vuole mettere il divieto di bere, ma bisogna rendere consapevole il consumatore“, ha puntualizzato Artoni: “Se c’è consapevolezza, si è in grado di scegliere, per coniugare il piacere e la convivialità del bere, senza porre un rischio di salute troppo alto”.