La Commissione europea e il Parlamento europeo hanno deciso per lo stop alla vendita di auto a combustione a partire dal 2035. La gran parte dei governi sono a favore, ma un piccolo gruppo tra loro (Germania, Italia, Polonia e Bulgaria) pur dopo aver sottoscritto un accordo politico, ha cambiato posizione all’ultimo momento e si è dichiarato contrario, ed è riuscito per ora a fermare il via libero definitivo da parte del Consiglio dei ministri Ue, perché, vista la popolazione che rappresentano, formano una minoranza di blocco, che farebbe cadere il provvedimento, se si arrivasse ad un voto.
Le ragioni presentate dai politici di questi Paesi sono legate a gravi preoccupazioni in particolare sul fronte occupazionale, si teme che interi settori produttivi verrebbero chiusi. Riserve sono espresse anche sulla possibilità di adeguare il mercato e le infrastrutture ad una realtà di motori (progressivamente, perché non è che le auto tradizionali dovrebbero smettere di circolare nel 2035) principalmente elettrici, che sarebbero anche molto costosi per i consumatori. Ci sono anche timori sul fronte della dipendenza dai Paesi terzi, come la Cina, per la produzione di batterie, benché già da alcuni anni l’Ue abbia lanciato la sua Coalizione per la ricerca in questo settore.
Le posizioni assunte da questo gruppo di Paesi secondo alcune persone vicine al dossier sembrano rispondere a sopraggiunto ragioni strategiche di politica interna più che di politica industriale.
Quello che però colpisce è la prudenza del settore industriale automobilistico in questo dibattito. La ragione è che oramai da anni è chiara questa evoluzione del mercato, e da anni le aziende si stanno preparando, con investimenti notevoli a questo passaggio. Il gruppo Stellantis, ad esempio, è già pronto a lasciare il settore della motorizzazione tradizionale nel 2032. Quel che le aziende chiedono ai governi è di favorire la trasformazione delle infrastrutture per adeguarsi al nuove mercato.
Anche da parte sindacale non si registrano resistenze, benché si chieda ai governi di preparate per tempo piani di transizione che consentano la salvaguardia dei posti di lavoro.
I problemi sul tappeto sono dunque due, e ambedue fanno riferimento alla politica: favorire il cambiamento tecnologico e gestire la transizione occupazionale.
Sembra quindi che la politica dei Paesi contrari alla scadenza del 2035 sia spaventata dalla difficoltà della parte di sfida che tocca ai governi, perché industrie e sindacati sembrano essere pronti, ed intervengono nel dibattito con molta prudenza, di certo non si nota un appoggio deciso a chi chiede il rinvio della scadenza.
Il rischio è che i due Paesi più importanti del gruppo, Italia e Germania, si stiano schierando in una battaglia di retroguardia, guidati più da timori di non essere all’altezza della gestione della transizione che da reali problemi industriali/occupazionali. Un rinvio di qualche anno potrebbe, probabilmente, essere possibile, ma per le industrie, e l’occupazione, non sarebbe un “mano santa”, sarebbe probabilmente un problema di ritorno sugli investimenti fatti e sulle negoziazioni sindacali già in corso.