Nel dare il via libera all’iter di approvazione della legge finanziaria per il 2023, in ritardo con l’abituale tempistica per la tenuta delle elezioni politiche anticipate, governo e Parlamento sono entrati nel vivo anche nelle dinamiche previste dal “semestre europeo” di coordinamento delle politiche economiche dei paesi della zona Euro che implica un giudizio preventivo delle istituzioni europee sulle leggi di bilancio nazionali. Pur in presenza della sospensione delle regole del Fiscal Compact a tutto il 2023, la Commissione europea continua, infatti, a monitorare le politiche economiche nazionali, alla luce altresì degli impegni assunti nel quadro del Recovery Fund, che legano gli stanziamenti aggiuntivi europei ad un preciso calendario di spesa, ma anche a misure di accompagnamento e di riforme strutturali di taluni settori “sensibili” come, nel caso dell’Italia, la giustizia, la pubblica amministrazione eccetera.
Ecco perché anche la questione dell’utilizzo di una certa somma di contante rientra nei parametri di valutazione in corso, accanto al tema dello “scostamento” parziale del Pnrr allo studio del governo, giustificato da un lato dalla crisi energetica in corso e dall’altro dai ritardi accumulati sin qui e che destano preoccupazione perché il completamento dei progetti e degli investimenti annunciati è condicio sine qua non per l’ottenimento delle successive tranches di aiuti. Pur se il governo è in buona compagnia, perché almeno altri dieci paesi, confrontati con analoghe difficoltà, sarebbero intenzionati a richiedere modifiche dei loro piani nazionali, si sa che l’Italia è “sorvegliato speciale” per avere avuto assegnata la fetta più consistente dei finanziamenti complessivi del Recovery Fund.
Una prima avvisaglia dell’accoglienza riservata alla legge di bilancio italiana si avrà al Consiglio Ecofin di questa settimana. Così mentre ci si accapiglia sull’utilizzo del contante, assurto a parametro di riferimento per separare “buoni e cattivi”, Giorgia Meloni fa bene ad essere preoccupata e a dichiarare ce se necessario, intende lavorare anche a Natale sul fronte economico e finanziario, a partire dall’implementazione del Pnrr.
Ma i suoi problemi non si limitano a questo: mentre la crisi diplomatica scatenatasi sulla questione migranti è tuttora irrisolta e la discussione su un tetto al prezzo del gas resta in alto mare, sta per aprirsi il fronte Ungheria. Di che si tratta? Dopo un lungo periodo nel quale sembrava temporeggiare, la Commissione europea ha reso pubblico che, a suo giudizio, l’Ungheria non abbia compiuto sufficienti progressi nelle riforme riguardanti il rispetto dello “stato di diritto” e che pertanto i fondi destinati al paese debbano restare congelati (pur avendo approvato, in extremis, le linee programmatiche del piano di ripresa e resilienza ungherese).
Scontata la reazione del primo ministro magiaro Viktor Orban, che ha confermato le sue misure di ritorsione e cioè il veto del suo Paese al via libera alla tassa minima globale per le multinazionali e al pacchetto di assistenza macro-finanziaria all’Ucraina da 18 miliardi per il 2023, aggiungendo , per quanto riguarda il nono pacchetto di sanzioni in discussione: “se l’Unione europea estendesse le sanzioni contro la Russia al gas e all’energia nucleare, ciò avrebbe delle conseguenze tragiche per l’Ungheria”, la palla passa ora al Consiglio Ue dove diversi governi, fra cui l’Italia, hanno già espresso perplessità sulle misure preconizzate dalla Commissione – e fortemente sostenute dalla maggioranza del Parlamento europeo.
Conoscendo i legami che uniscono il nuovo governo ad Orban ciò non deve stupire: unendo però questo probabile nuovo braccio di ferro alle alte partite già in corso, è facile ipotizzare che l’esordio di Giorgia Meloni al suo primo Consiglio europeo vero e proprio, il 15 e 16 dicembre prossimi a Bruxelles, non sarà propriamente una passeggiata.