dall’inviato a Strasburgo – Non è ancora il momento del giudizio sull’Ungheria da parte della Commissione Europea, ma ormai è solo una questione di giorni. “Ultimeremo la nostra valutazione entro la fine di novembre, l’intenzione è quella di presentarla quanto prima al Consiglio, perché possa confluire nell’iter per la decisione finale entro il 19 dicembre”, è quanto ha annunciato in apertura della sessione plenaria del Parlamento Ue di oggi (lunedì 21 novembre) il commissario per la Giustizia, Didier Reynders, a proposito delle 17 misure correttive per bloccare il processo di congelamento dei fondi di coesione attraverso il meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto.
Nel corso del confronto con gli eurodeputati – che solo la scorsa settimana avevano attaccamento duramente l’esecutivo comunitario sulla possibilità di uno sblocco dei fondi all’Ungheria – il commissario Reynders ha ricordato che quello di Budapest è “il primo caso ai sensi del meccanismo di condizionalità sullo Stato di diritto” per cui la Commissione si è attivata a metà settembre: “Abbiamo rilevato lacune gravi sugli appalti pubblici, l’incapacità di affrontare la corruzione e un rischio concreto di compromettere la gestione sana dei fondi Ue”. In altre parole, “irregolarità sistemiche e debolezze strutturali“, che pongono serie preoccupazioni per “reiterazioni di problemi e crimini”.
Dopo la proposta della Commissione di congelare 7,5 miliardi di euro destinati all’Ungheria attraverso la politica di coesione, “da allora abbiamo avuto discussioni intense sia a livello tecnico sia politico, per vigilare sull’attuazione degli impegni e il mantenimento delle promesse”, ha precisato Reynders agli eurodeputati. Le informazioni da Budapest sono arrivate entro i termini previsti (il 19 novembre) e ora il gabinetto von der Leyen le sta “analizzando attentamente, anche con i disegni di legge disponibili“. Come aveva spiegato lo stesso commissario per la Giustizia al termine del Consiglio Affari Generali di venerdì scorso (18 novembre), “se saremo d’accordo con l’Ungheria” a proposito della corretta messa a terra delle misure, “sarà importantissima un’attuazione solida delle riforme”.
La questione riguarda però anche l’approvazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza dell’Ungheria e “come per tutti gli Stati membri, lo valutiamo sulla scorta dei criteri stabiliti e delle linee-guida fornite”, ha messo in chiaro Reynders. Nessuna apertura al momento, ma un richiamo al rispetto delle 17 misure correttive anche per quanto riguarda i traguardi del Pnrr, “in particolare sul piano dell’anti-corruzione e dell’indipendenza della magistratura”. Richieste che il membro del gabinetto von der Leyen ha ricordato anche alla ministra della Giustizia ungherese, Judit Varga, a Bruxelles pochi giorni fa. La stessa ministra si era detta “ottimista” per la possibilità di “sederci al tavolo e avere una proposta costruttiva e molto professionale su come porre rimedio alle perplessità sollevate dalla Commissione”, chiedendo agli altri 26 governi di non rendere la questione “ostaggio di una particolare agenda politica, minando l’unità europea in un momento in cui l’intera Unione sta affrontando sfide senza precedenti”.
L’iter di congelamento dei fondi dell’Ungheria
Lo scorso 18 settembre il gabinetto von der Leyen aveva proposto di sospendere il 65 per cento dei fondi che Budapest avrebbe dovuto ricevere attraverso la politica di coesione dell’Unione, ovvero 7,5 miliardi di euro. I programmi operativi della politica di coesione interessati dalle misure sono tre e dovrebbero essere finanziati dal Fondo europeo di sviluppo regionale (Fesr), dal Fondo di coesione, dal Fondo per la transizione giusta (Jtf) e dal Fondo sociale europeo Plus (Fse+): ‘Ambiente ed efficienza energetica Plus’, ‘Trasporto integrato Plus’, e ‘Sviluppo territoriale e degli insediamenti Plus’. Come seconda misura la Commissione ha proposto anche il divieto di assumere nuovi impegni giuridici con i trust di interesse pubblico e con le entità da essi gestite nell’ambito di qualsiasi programma dell’Unione in gestione diretta e indiretta.
La procedura era iniziata lo scorso 27 aprile, con la notifica scritta della Commissione inviata all’Ungheria, il primo passo della procedura che permette all’Ue di sospendere i pagamenti provenienti dal bilancio pluriennale a un Paese membro, quando le violazioni dello Stato di diritto hanno o rischiano di avere un impatto negativo sul bilancio europeo. L’attivazione del meccanismo è giustificata da “serie preoccupazioni” sull’uso dei fondi attraverso il quadro finanziario pluriennale 2021-2027, in particolare per quanto riguarda il public procurement (spesa pubblica destinata all’acquisto diretto di beni e servizi da parte della pubblica amministrazione), audit (valutazioni indipendenti di controllo delle spese), trasparenza, prevenzione delle frodi e corruzione. Dopo aver capito di non poter andare allo scontro insieme a un blocco di Paesi contrari all’interno del Consiglio in vista della decisione entro il 19 dicembre, l’Ungheria di Orbán ha deciso di percorrere la strada dell’allineamento alle richieste di Bruxelles sull’attuazione delle 17 misure correttive.
Quella in corso è una procedura amministrativa, non penale, e questo significa che non ha effetti legali né può essere impugnata. Nel novembre dello scorso anno erano state inviate due lettere a Budapest e a Varsavia (sulla Polonia la Commissione deve ancora esprimersi) con una richiesta di spiegazioni sulle violazioni dello Stato di diritto in atto. In risposta, i due Paesi membri si erano rivolti alla Corte di Giustizia dell’Ue, ma il 16 febbraio i loro ricorsi sono stati respinti: i giudici europei hanno sottolineato che il meccanismo è stato adottato “sul fondamento di una base giuridica adeguata”, che rispetta “i limiti delle competenze attribuite all’Unione e il principio della certezza del diritto” e che è compatibile con la procedura prevista all’articolo 7 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea. In sostanza, un meccanismo parallelo e non in contrasto con la possibilità di sospendere i diritti di adesione all’Ue in caso di violazione “grave e persistente” da parte di un Paese membro dei principi fondanti dell’Unione (come il caso dell’Ungheria).