La Louvière (Belgio) – Di fronte al concerto di fiati e percussioni della Festa della Vallonia campeggia una grande insegna blu con un enorme cono gelato: ‘Gelateria – Tavola calda – Dolce Vita’. Aperta la porta, le fotografie di Federico Fellini e Sophia Loren, le bandiere tricolori verde-bianco-rosso, le citazioni di Totò e piatti di pasta con salsiccia e friarielli. I camerieri parlano francese con alcuni clienti, italiano con altri, in cucina entrambe le lingue indifferentemente, e sul menù i paccheri di Gragnano alla contadina si affiancano al festival de patês. Sedersi e ordinare al ‘Dolce Vita’ di La Louvière è un’esperienza che ricorda da vicino un qualsiasi ristorante della provincia italiana, ma ha quel retrogusto di citazionismo che comunica artificiosità. Parlare di una tavola calda come questa, nel cuore della capitale della Regione Centro della Vallonia, il Sud del Belgio, è un po’ come ragionare dei sentimenti che accomunano gli italiani che nel regno si sono trasferiti da decenni per trovare lavoro, che ci sono cresciuti, se non addirittura nati. Attaccamento alla terra di origine, nostalgia, integrazione in un Paese straniero (ma che ormai è casa), frustrazione per il senso di abbandono da parte della politica nazionale.
La Louvière è una città di circa 80 mila abitanti, di cui uno su dieci ha origini italiane. Le ragioni di questa alta concentrazione vanno ricercate nell’emigrazione di lavoratori dopo la seconda guerra mondiale, in particolare dopo la firma del Protocollo italo-belga del 1946 sul trasferimento di 50 mila lavoratori nelle miniere della Vallonia in cambio dell’invio di carbone in Italia secondo le quantità previste dall’accordo. Negli anni Settanta gli italiani residenti in Belgio erano stimati attorno ai 300 mila. “Quando si dice che le persone venivano scambiate con il carbone era sostanzialmente vero e i minatori che arrivavano qui vivevano in condizioni poco dignitose, anche a livello lavorativo”, spiega Annamaria Abbafati, segretaria del circolo del Partito Democratico di Bruxelles: “Per esempio, furono riutilizzate le baracche dei campi di concentramento nazisti per ospitare i lavoratori, e poi c’era l’obbligo di rimanere per almeno cinque anni in miniera, una volta arrivati in Belgio”. È in questo contesto che si inserisce il disastro di Marcinelle del 1956, quando 262 minatori (di cui 136 italiani) morirono a causa di un incendio nella miniera di carbone di Bois du Cazier. “Solo a partire da quel momento ci si è iniziati a interessare ai diritti sul luogo di lavoro, ma anche a quelli legati alla permanenza di un italiano all’estero”, ed è soprattutto per questo motivo che Marcinelle rappresenta “un momento quasi fondante della nostra identità“, sottolinea con forza Abbafati. Il perché è semplice, ma non scontato: “Quella storia dà ancora oggi forza alle richieste di ogni italiano in Belgio, ma anche di ogni italiano in qualunque parte del mondo. È una leva per nuove battaglie, nuove proposte, nuovi diritti”.
Attaccamento viscerale all’Italia e idealizzazione di un Paese che non si vive direttamente da oltre mezzo secolo. È questo ciò che si percepisce con più forza confrontandosi con la prima generazione di italiani emigrati in Belgio, ovvero quei lavoratori arrivati da ragazzi e che non se ne sono mai più andati, stabilendosi definitivamente in Vallonia. È il caso di Saverio Iacobucci, presidente delle Acli di La Louvière, e Raffaele De Bellis, presidente dell’Associazione Pugliesi Belgio Centro, trasferitisi qui tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta: “L’inizio è stato molto duro, solo dopo cinque anni di miniera si poteva ottenere il permesso A, quello che permetteva di accedere ad altre funzioni, come in siderurgia”, spiega De Bellis. Dopo più di 60 anni di residenza, lavoro e vita in Belgio può sembrare scontata la richiesta di cittadinanza belga, e invece “no, noi restiamo italiani”, si scaldano entrambi all’unisono. Eppure, una contraddizione rimane tra le righe: “Al Belgio devo tutto, mi ha permesso di continuare a studiare, con mia moglie abbiamo costruito una casa con quanto guadagnato qui, in Italia non sarebbe stato possibile”, ammette Iacobucci.
Il legame con il Paese di origine si manifesta ancora con il voto per le elezioni politiche (che nella circoscrizione Estero segue dei criteri differenti dal territorio nazionale), ma anche in questo caso è chiaro dopo pochi scambi di battute il sentimento di odi et amo: “Nel cuore noi nella politica italiana ci crediamo, però nei fatti ci sentiamo abbandonati“. Per chi vive lontano dall’Italia da decenni, “non c’è quasi più nessun rapporto, poi ci dimenticano quando abbiamo bisogno di qualcosa a livello amministrativo”. A tamponare la situazione ci sono i Comites, gli organismi rappresentativi della collettività italiana istituiti nel 1985 ed eletti direttamente dai residenti all’estero in ciascuna circoscrizione consolare (il numero varia da 12 a 18 a seconda del numero di residenti registrati). Il loro ruolo è proprio quello di individuare le esigenze di sviluppo sociale, culturale e civile della comunità di italiani all’estero, collaborando con consolati, regioni, enti e associazioni per delineare iniziative e tutelare i diritti anche sul piano amministrativo. Dei 101 Comites elettivi (più 5 di nomina consolare), 47 si trovano in Europa, di cui 5 in Belgio (Mons, Genk, Charleroi, Liegi e Bruxelles).
Ma questo non sembra bastare. Le parole dei due italiani residenti in Belgio dalla metà del Novecento non riescono a non tradire la delusione nei confronti delle istituzioni, particolarmente difficili da ammettere per chi si è portato con sé un sacchetto di terra dal proprio paese di origine con cui si farà seppellire: “Noi abbiamo votato [le schede della circoscrizione Estero devono arrivare tre giorni prima del voto in Italia, ndr], ma sono molti quelli che hanno detto che non voteranno più, soprattutto tra i giovani“. Spesso le ragioni che spingono ancora a votare per il rinnovo del Parlamento italiano rientrano nella sfera dell’emotività e, a tratti, dell’irrazionalità: “Il cuore amoroso, il sentimento, perché c’è qualche cosa, qui” – prova a spiegare Iacobucci indicandosi il cuore – “che inevitabilmente ti fa sentire comunque italiano”.
“C’è sempre bisogno di rimanere in contatto con l’Italia”. Non ha dubbi Vincenzo Arnone, consigliere del Comites Charleroi e presidente dell’Unione siciliana emigrati e famiglie (Usef) e italiano di seconda generazione nato e cresciuto a La Louvière da padre italiano e madre belga. La sua storia è paradigmatica e, se strappa un sorriso, allo stesso tempo mette in evidenza un’esperienza che nessuno in Italia potrebbe vivere: “In casa si parlava francese, ho scoperto di chiamarmi Vincenzo solo a sei anni e per caso, perché tutti mi chiamavano Vincent”. Nel parlare del Paese di cui ha cittadinanza e nell’impegno per la custodia delle tradizioni di quella terra, è chiaro però che non è meno forte il ricordo “di quello che era e da dove si viene”, tanto quanto il bisogno di sentirsi rappresentato, che “c’è sempre, perché il legame tra l’Italia e un cittadino all’estero continua”. Che questo poi si traduca in un impegno politico non è però così scontato e, se gli italiani di prima generazione sentono con più forza la necessità di votare, “ci sarà poca partecipazione degli italiani di seconda generazione in Belgio alle elezioni“, confessa il presidente di Usef La Louvière: “I più giovani non sentono l’interesse, la politica nazionale sembra troppo distante e a volte non si conoscono neanche i partiti. Spesso non sappiamo chi siano le persone sulle liste”.
Oltre a un problema di priorità quotidiane, sembra affiancarsi anche una questione di rappresentatività. “Noi sentiamo il rapporto con la politica italiana attraverso i consolati e con l’ambasciata, è con loro che discutiamo” – spiega Arnone – “ma quando la politica italiana dice che non vuole più investire nella comunicazione con gli italiani all’estero, allora sì che c’è un problema”. In termini pratici cosa significa? “Se decidono di chiudere un’antenna consolare come hanno fatto a La Louvière, creano un problema a tante persone, che devono andare ogni volta a Charleroi”, al cui consolato fa capo una delle comunità di aventi diritto al voto più grandi in Europa (155 mila iscritti su 277 in tutto il Belgio). Si spiega anche così la disaffezione delle seconde e terze generazioni di italiani all’estero alla politica nazionale. Secondo i dati forniti dal ministero degli Interni, al 31 dicembre 2021 erano iscritti all’Aire (Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) complessivamente 5,8 milioni di cittadini. Si tratta di un aumento di mezzo milione di iscritti rispetto alle ultime elezioni del 2018, a fronte di una diminuzione del numero dei parlamentari eletti nella circoscrizione Estero da 12 a 8: se quattro anni fa ciascun senatore o deputato rappresentava 441 mila italiani residenti all’estero, oggi deve portare a Roma le istanze di quasi il doppio (uno ogni 726 mila iscritti Aire).
Sotto gli occhi di una Sophia Loren dipinta sulla parete del ‘Dolce Vita’, Vincenzo Arnone ha chiaro il motivo per cui è più che mai necessario rinforzare il legame elettorale attraverso l’Aire: “Tutti gli iscritti ricevono le schede di voto, così ci si può chiedere di cosa si tratta, ci si può informare e, con l’impegno personale, si può capire e scoprire che cos’è la politica nel Paese. Perché se sei italiano, sei italiano ovunque”. Al tavolo a fianco, un gruppo di adolescenti belgi mangia Linguini au pesto e Ravioloni du chef. Con tutta probabilità almeno uno di loro ha origini italiane e sarà chiamato a votare alle prossime elezioni politiche nazionali.