Bruxelles – Sei mesi di presidenza, una guerra nel cuore dell’Europa e una crisi di insicurezza energetica che rischia di trasformarsi in una crisi di approvvigionamento. Cala oggi (30 giugno) il sipario sul semestre di presidenza francese di turno alla guida dell’Ue, che sarà ricordato principalmente per la guerra in Ucraina scatenata dalla Russia, ma che dovrebbe esserlo soprattutto per i (tanti) passi avanti fatti su importanti dossier legislativi europei, dalla dimensione sociale del salario minimo, ai numerosi negoziati conclusi con l’Europarlamento, senza dimenticare l’accordo storico in seno al Consiglio per portare più donne nei consigli di amministrazione delle aziende quotate in borsa (e sbloccare uno stallo politico durato tutto un decennio).
Buona parte di questi compromessi politici sono arrivati negli ultimi due mesi di presidenza, dal momento che l’agenda politica del presidente francese Emmanuel Macron, in particolare da febbraio a oggi, è stata dominata e condizionata dall’invasione russa ai danni di Kiev, iniziata proprio il 24 febbraio. La prima metà della presidenza francese è stata segnata da decine di riunioni a livello di ambasciatori (nel comitato dei rappresentanti permanenti all’UE, il Coreper) per decidere e rendere operativi sei pacchetti di sanzioni contro la Russia (che hanno colpito in maniera inedita anche le importazioni di carbone e petrolio da Mosca), che fino a pochi mesi fa sembrava impossibile che l’UE riuscisse ad allinearsi su posizioni comuni ma su cui, in alcuni casi, è stato difficile trovare un compromesso rapido a causa delle reticenze di alcuni Paesi, come il veto dell’Ungheria che per un mese ha bloccato l’embargo sul petrolio russo.
Europa sociale e Schengen rafforzata
La dimensione sociale ha occupato un ruolo significativo nel semestre francese, segnato anche dall’accordo finale raggiunto con gli eurodeputati sulla direttiva sul salario minimo adeguato nell’Unione. L’accordo non stabilisce un salario minimo a livello europeo, perché rimane in sostanza una competenza nazionale. Definisce però un quadro per l’armonizzazione a livello europeo per cui i 21 Paesi che già hanno un salario minimo di base garantito per legge, restano liberi di determinarlo ma nel rispetto di nuovi criteri comuni. Oltre a potere d’acquisto e costo della vita si dovranno prendere come riferimento la produttività nazionale, il 60 per cento del salario mediano e il 50 per cento della retribuzione lorda media. Le conseguenze reali di questo testo resteranno da misurare, ma l’adozione dell’accordo ha determinato un segnale politico importante.
Come importante politicamente è stato lo sblocco da parte di Parigi dei negoziati in seno al Consiglio sulla direttiva per portare le società quotate dell’UE a nominare entro il 2026 almeno il 40 per cento di donne tra gli incarichi di amministratore non esecutivo o il 33 per cento di tutti i ruoli nei consigli di amministrazione. Emmanuel Macron lo aveva promesso all’avvio della presidenza di fronte alla plenaria dell’Europarlamento di sbloccare lo stallo sulle quote rosa nei consigli di amministrazione delle aziende, direttiva proposta nel 2012 dall’allora commissaria europea alla Giustizia di allora Viviane Reding, lussemburghese, per poi rimanere bloccata dieci anni in Consiglio, avendo incontrato l’opposizione di una minoranza di Stati membri che si sono rifiutati di adottare l’obiettivo come legge a livello comunitario. Tra questi anche la Germania della prima cancelliera donna Angela Merkel e alcuni Stati nordici e baltici. E così è stato, con riconoscenza della presidente dell’Esecutivo comunitario, Ursula von der Leyen, che ha puntato su Parigi fin dall’inizio per sbloccare l’impasse.
Macron ha fatto della sicurezza e di un’Europa “più sovrana” una delle priorità di questo semestre, con l’idea di rafforzare l’area di libera circolazione Schengen. E proprio sul controllo delle frontiere esterne e interne, Parigi ha ottenuto l’istituzione di un Consiglio Schengen e qualche passo in più sul nuovo (ma la proposta risale al settembre 2020) Patto sulle migrazioni e l’asilo, con una intesa politica tra i governi sul meccanismo di solidarietà per la redistribuzione dei migranti.
Dal ‘Fit for 55’ alle leggi sui colossi digitali, la presidenza di Parigi porta avanti la doppia transizione
Ma è anche sulla transizione climatica e sulla regolamentazione dei colossi digitali che sono stati raggiunti risultati ambiziosi. Ultimo in ordine di tempo, ma non di importanza, è il compromesso raggiunto sul filo di lana nella notte tra martedì e mercoledì su cinque testi chiave dell’ambizioso pacchetto sul clima ‘Fit for 55’, proposto dalla Commissione ormai quasi un anno fa per abbattere le emissioni di gas serra del 55 per cento entro il 2030 (rispetto al 1990), come tappa intermedia per arrivare alla neutralità climatica entro il 2050. Il Consiglio dell’Ue ha ora una posizione da negoziare con l’Europarlamento sulla revisione del sistema di scambio di quote di emissioni (il sistema Ets, ovvero il mercato del carbonio) e sulle norme per le emissioni di nuove auto e furgoni che porteranno l’Europa allo stop della vendita di veicoli con motore a combustione, anche benzina e diesel, nel 2035. Posizione comune tra i ministri raggiunta anche per introdurre un Fondo sociale climatico per mitigare i costi sociali della transizione, passando anche per nuovi target di riduzione delle emissioni nei settori non coperti dall’Ets (come il settore agricolo) e l’assorbimento del carbonio attraverso l’uso del suolo e delle foreste.
Poche ore prima di questa lunga maratona negoziale, i ministri dell’Energia avevano concordato il giorno prima anche la posizione del Consiglio Ue sui nuovi target per la produzione di energia rinnovabile e di efficienza energetica e a marzo un meccanismo di aggiustamento del carbonio alle frontiere, iniziativa meglio conosciuta come ‘tassa sul carbonio alle frontiere’ perché nei fatti è una tassa sulle emissioni dei beni importati in UE che sarà una misura complementare e speculare al sistema dell’Ets con l’idea di evitare la tendenza delle imprese alla rilocalizzazione delle emissioni di carbonio. Concordato un compromesso in Consiglio (che in gergo tecnico si chiama “orientamento generale”) anche su tre proposte legislative del pacchetto clima che riguardano nello specifico il settore dei trasporti: l’infrastruttura per combustibili alternativi, e le due iniziative per il trasporto marittimo (FuelEU Maritime, con limiti più stringenti all’intensità di carbonio dell’energia utilizzata dalle navi dal 2025) e per l’aviazione (RefuelEU Aviation). Di fronte all’incertezza energetica che la Russia ha fatto piombare sull’Europa – con i tagli alle forniture energetiche e il rischio di un’interruzione totale dei flussi – la presidenza del Consiglio ha concordato con l’Eurocamera in un tempo record di due mesi (generalmente se ne impiegano molti di più) un accordo con il Parlamento sull’obbligo per i governi di riempire gli stoccaggi del gas all’80% della capacità entro il primo novembre di quest’anno, e fino al 90 per cento a partire dal 2023.
Sul fronte digitale, Parigi incassa l’accordo con l’Europarlamento sul Digital Services Act e del Digital Markets Act, le due legislazioni che andranno a regolamentare il settore e in particolare le attività dei colossi del digitale nel mercato dell’Unione. La prima a essere approvata è stata la legge sui mercati digitali (24 marzo) e ci si aspetta che sia pienamente operativa su tutto il suolo comunitario entro il 2023. Il testo specifica le caratteristiche per identificare i ‘controllori’ dell’accesso al mercato digitale, focalizzandosi soprattutto sulle Big Tech statunitensi (Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft). Ad aprile si sono conclusi anche i negoziati sulla legge sui servizi digitali, con cui le grandi piattaforme online (più di 45 milioni di utenti attivi mensili nell’UE) saranno soggette a requisiti di valutazione regolare dei rischi di disinformazione e violazioni dei diritti fondamentali. Alla presidenza francese si deve anche il ‘sì’ dell’Unione europea al caricatore universale, che sarà in vigore non prima del 2024, così come l’estensione del roaming gratuito per altri 10 anni e l’accordo sulla sicurezza delle reti e dei sistemi informativi sia nel settore pubblico sia in quello privato (NIS 2).
Cosa rimane
Con 34 accordi siglati con il Parlamento europeo e 55 dentro il Consiglio, la presidenza di Parigi, come tutte le presidenze, lascia qualcosa in sospeso. Uno dei grandi “smacchi” a Macron è il mancato accordo sulla tassa minima globale, “minimum tax” al 15 per cento per le multinazionali, frenata a giugno dal veto dell’Ungheria e prima ancora dalla Polonia (che ha ritirato il ‘no’ dopo aver ricevuto il via libera al suo piano nazionale di ripresa e resilienza”.
Ma il cuore della presidenza francese avrebbe dovuto essere il seguito concreto al dibattito sul futuro dell’Europa. Proprio da Macron arrivava nel 2019 la proposta di istituire una Conferenza sul futuro dell’Europa in cui riunire cittadini e istituzioni per avviare il dibattito su come e in che termini riformare l’Europa. Dopo tante difficoltà, la Conferenza sul futuro dell’Europa è nata e avrebbe dovuto concludersi (e si è conclusa) simbolicamente sotto la presidenza francese. Nelle celebrazioni finali di questo esercizio inedito di democrazia partecipativa lo scorso nove maggio, con un discorso retorico Macron ha assicurato l’impegno a dargli un seguito concreto, sostenendo la proposta dell’Europarlamento di aprire il cantiere delle riforme dell’UE convocando una Convenzione interistituzionale e individuare quali aree dell’architettura democratica dell’UE debbano andare incontro a una revisione.
Il tema avrebbe dovuto essere centrale all’ultimo Consiglio europeo che ha visto Macron alle redini dell’UE (23-24 giugno) ma così non è stato e vista l’opposizione di almeno 13 Stati membri (ne servono 14 al Consiglio per aprile la convenzione), la presidenza non ha neanche rimesso sul tavolo la questione. La palla è nelle mani, da domani, della presidenza della Repubblica ceca, che sarà alla guida dell’UE per i prossimi sei mesi. Ma non si aspettano grandi annunci in questo senso, anche perché Praga è proprio uno dei 13 Paesi europei che lo scorso 9 maggio hanno firmato il non paper per dire ‘no’ alla riforma strutturale dell’UE, quando il palco della Conferenza sul futuro dell’Europa non aveva ancora neanche spento le luci.