Bruxelles – Stop ai beni frutto del lavoro forzato sul mercato unico europeo. Nella risoluzione di ieri (9 giugno) il Parlamento Europeo ha chiesto un nuovo strumento commerciale che vieti l’import e l’export di questi prodotti nell’UE. Non solo: anche una banca dati di chi sfrutta e una mappatura delle catene di approvvigionamento, per evitare che anche solo una parte dei processi produttivi di un prodotto provenga dal lavoro forzato.
Secondo le stime dell’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), riportate dalla risoluzione, 25 milioni di persone sono al momento soggette a condizioni di lavoro forzato: 20,8 milioni sono sfruttati da aziende, 4,1 milioni da enti statali. Il 61 per cento è donna, molte invece sono persone migranti. A oggi nessuna normativa dell’UE mira a limitare la circolazione di questi prodotti. Il 23 febbraio scorso la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha però annunciato i lavori per una proposta che ne introduca il divieto d’immissione sul mercato, colpendo sia le imprese nazionali che extra UE. Tuttavia, il Parlamento Europeo ha chiesto di più.
Nella risoluzione si chiede di inserire il divieto per i beni provenienti da un particolare sito di produzione, importatore o impresa, oppure da una regione specifica, “nel caso del lavoro forzato sostenuto dallo Stato”. Ciò dovrebbe avvenire, secondo il Parlamento Europeo tramite il blocco alla dogana e l’eventuale sequestro delle merci, se sospette, anche in base agli indicatori dell’OIL. Che individuano elementi come: abuso di vulnerabilità, inganno, limitazione dei movimenti, isolamento, violenza fisica e sessuale, intimidazioni e minacce, sottrazione dei documenti di identità, trattenuta dei salari, servitù per debiti, condizioni di vita e di lavoro abusive e straordinari eccessivi. All’importatore dovrebbe essere data quindi la possibilità di confutare l’accusa di utilizzo di lavoro forzato per sbloccare le merci.
Il Parlamento ha invitato inoltre la Commissione a elaborare orientamenti per assistere le imprese nella creazione di un “processo di mappatura della catena di approvvigionamento”, con “una banca dati pubblica contenente informazioni sui singoli fornitori, sul rischio che essi comportano o, al contrario, la prova di un lavoro dignitoso”. Nella risoluzione, anche la proposta di un risarcimento per i lavoratori sfruttati.
“I crimini contro l’umanità si trovano nei nostri armadi, nei nostri negozi. C’è la deportazione e la riduzione in schiavitù del popolo uiguro”, ha sottolineato in sede di dibattimento l’eurodeputato francese Raphaël Glucksmann (Alleanza Progressista dei Socialisti e Democratici) che, sempre ieri ha votato anche a favore della risoluzione sulla situazione della minoranza etnica in Cina. Mentre Tiziana Beghin (Non iscritti) del Movimento 5 Stelle ha ribadito: “Perché questo strumento contro il lavoro forzato funzioni bisogna che si applichi a tutto il processo di produzione e non solo ai prodotti finiti”.
Anche Anna Cavazzini (Verdi) ha scandito: “Lo strumento deve essere globale, senza escludere alcuna azienda e va presentato ora” contro i prodotti della “schiavitù moderna”. Mentre Alessandra Basso (Identità e Democrazia), in quota Lega, ha chiesto di approfondire il sistema di valutazione e controllo già applicato dalle dogane americane per il controllo dei casi sospetti.