dall’inviato a Strasburgo – Costo della vita e potere d’acquisto come punto di partenza comune, a livello europeo, per il salario minimo di lavoratori dipendenti e assimilati. Parlamento e Consiglio UE trovano la quadra su un dossier delicato che tocca competenze fin qui degli Stati membri, d’accordo a mettere ad armonizzare una materia che resta comunque a trazione nazionale. I 21 Paesi che già hanno un salario minimo di base garantito per legge, restano liberi di determinarlo ma nel rispetto di nuovi criteri. Oltre a potere d’acquisto e costo della vita si dovranno prendere come riferimento la produttività nazionale, il 60 per cento del salario mediano e il 50 per cento della retribuzione lorda media.
This is a good day for social Europe.
We have reached an agreement on the directive on adequate minimum wages in the EU.
This is especially important at a time when many households are worried about making ends meet.
My thanks to all teams! #EUminimumwages #SocialRights pic.twitter.com/Ayt5BwvOfp
— Nicolas SCHMIT (@NicolasSchmitEU) June 7, 2022
A partire da ciò gli Stati dovranno aggiornare i salari minimi almeno ogni due anni, termine spostato fino a un massimo di quattro anni per chi prevede già retribuzione di base che segue un percorso di indicizzazione automatica all’inflazione. Per gli Stati membri in cui la formazione del salario avviene esclusivamente tramite contratti collettivi, come in Italia, la presente direttiva non prevede l’obbligo di introdurre un salario minimo legale.
La proposta di direttiva non impone alcun obbligo per Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia di introdurre un salario minimo. Questi sono i sei membri dell’Ue a non prevederlo, e per loro niente cambierà in tal senso. Si chiede solo di riconoscere maggior ruolo ai sindacati nella contrattazione collettiva, e di portare quest’ultima ad una quota minima dell’80 per cento laddove non vi sia.
Un passaggio, quest’ultimo, chiarito per bene dal commissario per il Lavoro e gli affari sociali nel corso della conferenza stampa. “Danimarca e i Paesi con sistemi analoghi non sono interessati da questa direttiva“, taglia corto Nicolas Schmit. Per chiudere un dibattito molto italiano sulla materia, precisa quindi che “non intendiamo introdurre un salario minimo in Italia, chiediamo di rendere più efficace la contrattazione collettiva, specie per coloro che non sono protetti molto bene”.
La direttiva non può intervenire sulle detrazioni operate in busta paga, ma si chiarisce che queste debbano avvenire in modo da garantire che “rispettino i principi di non discriminazione e proporzionalità”.
Serve ora il via libera del Coreper e il voto del Parlamento per rendere questo accordo raggiunto nella notte definitivo. Dal momento della pubblicazione su gazzetta ufficiale saranno concessi due anni di tempo per dare omogeneità europea di calcolo di partenza al salario dei cittadini dell’UE, e poi niente più scuse. La Corte di giustizia dell’UE potrà intervenire in caso di inadempimenti. Anche perché, ricorda Dennis Radtke (PPE), relatore del dossier, “l’articolo 11 di questa direttiva, poco citato ma molto importante, definisce il diritto di un’indennità se il lavoratore non è pagato sulla base di questa direttiva“.