Roma – Quella di Jake Sullivan, consigliere americano per la Sicurezza nazionale, è una missione che conta più di quanto si potrebbe forse pensare. A Roma da ieri, l’alto funzionario ha incontrato il responsabile della politica estera del Partito comunista cinese Yang Jiechi e oggi il consigliere diplomatico del Presidente Draghi Luigi Mattiolo. In stallo la diplomazia tra i due attori principali del conflitto, il dialogo tra Usa e Cina ha il delicato compito di mettere sui binari giusti un negoziato, una sorta di tavolo “preparatorio” con l’obiettivo di convincere Pechino ad abbandonare la sua posizione neutrale. In subordine, spingere Putin a smussare le rigidità che in questo momento sono insormontabili e ostacolano ogni minimo negoziato compreso quello sulla garanzia dei corridoi umanitari.
Washington ha avvertito la Cina che un eventuale supporto militare alla Russia “avrebbe serie conseguenze” anche se le indiscrezioni pubblicate dalla stampa americana non hanno trovato conferma. Ma a parte le schermaglie e le uniche notizie fatte filtrare, il confronto tra le due potenze mondiali potrebbe essere il passo necessario per agevolare una concreta trattativa sulla guerra. In sostanza per fermare le bombe, il passaggio obbligato sembra essere Pechino e la Cina è probabilmente l’unico interlocutore che può spendere la sua forza di ingerenza sulla Russia.
E potrebbe agire in questa direzione non per fare un favore ai nemici di Putin e schierarsi apertamente con l’Occidente ma perché non ha interesse a mantenere l’instabilità provocata dalla guerra che compromette i suoi affari.
Dopo questo primo round, la posizione cinese per ora però non cambia, teme le conseguenze delle sanzioni che critica, anche per gli effetti indiretti sulla sua economia. La leva per mettere pressione a Putin si gioca su questo fronte (e forse anche su quello interno di Taiwan e Hong Kong), in un orizzonte di riposizionamento che gli Stati Uniti possono decidere di offrire. Strada lunga, che per ora non consente facili ottimismi ma è con queste lenti che va visto il confronto di questi giorni.
In questi venti giorni di guerra il governo italiano è stato criticato per la sua assenza dalle manovre diplomatiche in giro per l’Europa, un giudizio respinto dal presidente del Consiglio Draghi. Roma resta però un crocevia importante, “non dobbiamo cercare un ruolo ma dobbiamo cercare la pace e ora è Putin che non la vuole”, ha sintetizzato il premier a Versailles, come a sottolineare gli esiti poco fruttuosi delle mediazioni messe in campo finora dai diversi leader europei. Nel breve colloquio di Draghi con Jack Sullivan a Palazzo Chigi è stata condivisa “la ferma condanna per l’aggressione ingiustificata da parte della Russia e la necessità di continuare a perseguire una risposta decisa e unitaria nei confronti di Mosca”. I due si sono inoltre detti d’accordo sull’importanza di intensificare ulteriormente i contatti tra Italia e Stati Uniti a tutti livelli, alla luce degli eccellenti rapporti bilaterali e del legame transatlantico.
L’Italia intanto si fa invece vedere e rafforza le iniziative sul fronte degli aiuti e dell’accoglienza ai profughi, impegno che il ministro degli Affari esteri Luigi Di Maio ha confermato con le visite di ieri e oggi in Romania e Moldavia.