Bruxelles – Sul Meccanismo europeo di stabilità e la sua riforma l’Italia si gioca una bella fetta di credibilità politica, già in discussione per via di una voltafaccia ufficialmente mai bollato come tale ma di cui si inizia a temere lontani dai riflettori. Il tema sta riprendendo piede in Italia, ma non è mai stato derubricato a Bruxelles come nelle altre capitali. A oggi solo due Parlamenti nazionali non hanno ratificato l’accordo raggiunto in sede europea ormai più di un anno fa: Germania e Italia. Mentre per la prima c’è da attendere il pronunciamento della Corte costituzionale di Karlsruhe, per la seconda non ci sono scuse.
Si doveva partire con il nuovo regime l’1 gennaio 2022, ma si è ancora ostaggio dell’alta corte tedesca e ancor più di una politica italiana che rischia di perdere non solo la faccia. “Ci sono due Paesi che ancora non hanno ratificato, e non mi risulta ci siano stati sviluppi significativi nelle ultime settimane”, si mugugna a Bruxelles, dove ci si attende la fine di tutti gli indugi. “Non ci sono piani B” a mancate ratifiche. “C’è un impegno politico e facciamo affidamento su questo” e il suo rispetto. Tradotto: ne va della credibilità e dell’affidabilità dell’Italia.
La questione italiana sul MES risale al 2018. Furono i capi di Stato e di governo a dirsi d’accordo a dare nuovi poteri e mandato all’organismo inter-governativo, con l’obiettivo di farne uno strumento di stabilità bancaria e finanziaria. Si tratta di consentire all’organismo di Lussemburgo di intervenire in caso di crisi bancarie quando il fondo di risoluzione, da solo, non dovesse riuscire a farsi carico dell’insolvibilità dell’istituto di credito e la sua ristrutturazione. Gli Stati devono creare un paracadute finanziario (noto come backstop) attraverso contributi nazionali. Un fondo comune anti-crisi cui affiancare, in caso di necessità, il Mes come nuovo attore.
L’accordo in sede di ministri economici è stato raggiunto il 30 novembre 202o. Ci hanno lavorato due governi, entrambi presieduti da Giuseppe Conte, e due diversi ministri, Giovanni Tria e Roberto Gualtieri. Il via libera preliminare di Conte, nel 2018, non vide opposizione né dall’ala leghista né dall’ala pentastellata dell’allora esecutivo giallo-verde. E’ solo quando la trattativa si chiuse che è iniziata la levata di scudi, frutto di ripensamenti. Movimento 5 Stelle e Lega si sono ritrovati alleati in chiave anti-MES, dopo averlo avallato. Da quel momento il lavorio parlamentare non ha saputo produrre il via libera necessario per un’entrata in vigore di quanto concordato.
Fuori dall’Italia è divenuto chiaro che il cortocircuito è tutto dell’Italia, di cui ora si mette in discussione la classe dirigente. Mario Draghi può dare garanzie e rassicurazioni, ma se non ha i numeri in Parlamento può fare poco. L‘Eurogruppo da tempo chiede al nuovo titolare di via XX settembre ragguagli in merito, e la riunione informale di venerdì sarà un nuovo momento per tornare a esigere chiarimenti. Anche perché la pazienza sembra in via di esaurimento. “L’Eurogruppo si aspetta che l’Italia proceda con la ratifica il più presto possibile”. Ne va della credibilità politica del Paese.