Bruxelles – Proteggere “i nomi comuni” dei prodotti alimentari dall’abuso delle indicazioni geografiche da parte dell’Unione Europea. E’ questa la richiesta che il Consortium for Common Food Names (CCFN) statunitense ha avanzato al governo statunitense “per preservare i diritti degli utenti dei nomi comuni di alimenti e bevande” dal monopolio dell’UE. E per Filiera Italia, l’associazione che riunisce il mondo agricolo e industria agroalimentare italiana, è soprattutto “una reazione allo straordinario successo del Made in Italy”, che l’anno scorso ha toccato il record di esportazioni negli USA “con 5 miliardi e mezzo di agroalimentare e una crescita costante del 14 per cento”, spiega il consigliere delegato Luigi Scordamaglia in una intervista a Eunews.
Eunews: Da dove arriva questa richiesta e che cosa rappresenta questo consorzio?
Scordamaglia: “Era un consorzio abbastanza sconosciuto prima dell’arrivo di Trump e durante la politica trumpiana di America First è stato molto lanciato. La richiesta rappresenta a nostro avviso proprio una reazione di fronte a quello che è uno straordinario successo del Made in Italy: l’anno scorso abbiamo fatto un record di esportazioni negli Stati Uniti con 5 miliardi e mezzo di prodotti agroalimentari, con una crescita costante del 14 per cento. E’ il Paese dove continuano a crescere (le esportazioni) con più costanza e in maniera più sistematica, ma dove c’è un prodotto vero su cinque che invece sono di italian souding (ovvero l’uso di riferimenti evocativi dell’Italia per promuovere e commercializzare prodotti soprattutto dell’agroalimentare), quindi c’è una tradizione consolidata di utilizzo di denominazioni. Questo consorzio ci ha già provato in Cile e in altri Paesi del Sud America a registrare tutta una serie di prodotti italiani come l’asiago e la mortadella”.
E.: E adesso?
S.: “E ora siamo arrivati al paradosso perché chiede al governo statunitense di esercitare in tutte le relazioni internazionali tutta l’influenza possibile contro l’aggressività della tutela delle indicazioni geografiche dei nomi comuni, che in realtà nomi comuni non sono. La mancata difesa di nomi come ‘parmigiano’ senza ‘reggiano’ piuttosto che altri prodotti ha portato dei danni importanti ed è un fattore limitante in alcuni accordi commerciali altrimenti di successo, ad esempio quelli con il Canada e con il Giappone. È proprio un paradossale attacco a tutto quello che è la distintività e il legame con il territorio e tutto quello che caratterizza le nostre esportazioni”.
E.: Realisticamente, ci sono possibilità che l’attuale amministrazione statunitense di Joe Biden accolga una richiesta di questo genere?
S.: “L’auspicio è che Biden ne tenga meno conto rispetto a Trump, anche se è difficile da valutare. Anche Obama, che non era per nulla sulle stesse posizioni di Trump, in quanto a ricorsi all’Organizzazione mondiale del commercio (WTO) e contenziosi a tutela della produzione americana è stato uno dei più attivi. Quindi non basta l’appartenenza a una sfera politica, per darlo per certo. Ci auguriamo però che il rapporto particolare rilanciato da parte di Biden aiuti a far tacere queste cose”.
E.: Che cosa raccontano i dati italiani sulle esportazioni delle indicazioni geografiche?
S.: “Il valore economico delle produzioni a indicazione geografica in Italia ha raggiunto nel 2020 i 16,9 miliardi di euro (+4,2 per cento in un anno) con una incidenza dell’8,5 per cento sui quasi 200 miliardi di fatturato agroalimentare (143 industria alimentare + 57 primario). L’export 2020 del segmento è stato pari a 9,5 miliardi di euro (+5,1 per cento in un anno) che corrisponde al 21,6 per cento delle esportazioni agroalimentari (44,5 miliardi). Va sottolineata la dinamica espansiva del segmento e la sua forte proiezione esportatrice, con una incidenza export/fatturato al suo interno che supera il 56 per cento, più che doppia rispetto al 25,4 per cento del rapporto export/fatturato dell’industria alimentare. A fine 2019 l’Italia ha mantenuto in questo segmento il primato mondiale con 824 prodotti DOC, DOCG, IGT, DOP, IGP, STG: oltre un prodotto su quattro registrati come DOP, IGP, STG nel mondo è italiano e quelli legati alla piramide del vino, da soli, superano quota 500. Significativo il fatto che i vini certificati (driver principale e apripista negli anni di tutto l’export alimentare nazionale) coprono l’85 per cento dell’export di comparto”.
E.: Quali sono i rischi se l’amministrazione Biden dovesse sposare un approccio più intransigente?
S.: “Il rischio è quello di perdere una parte importante del fatturato di esportazione che è in crescita, ma sempre meno in crescita rispetto all’italian sounding. Negli Stati Uniti abbiamo questa situazione paradossale di un prodotto su cinque ed è chiaro che se passano questi concetti il consumatore americano fa fatica a capire che il parmesan non è il parmigiano reggiano e l’asiago non è l’asiago italiano. Rischiamo seriamente una battuta d’arresto sull’unica cosa che tira, le esportazioni, anche in relazione a una competitività ridotta delle produzioni italiane a causa di questo gap energetico e al gap di materie prime. Ovviamente chi si dovrebbe indignare e chi dovrebbe prendere una posizione è la Commissione Europea”.
E.: Perché in Europa se ne parla poco?
S.: “Vedo una Commissione Europea troppo distratta su questi temi, in generale la mia impressione è che ci sia una prevalente visione da Nord Europa che, al di là degli interessi economici, non riesce culturalmente a capire l’importanza di fattori come l’indicazione e la denominazione d’origine. C’è proprio una visione miope da parte dell’Esecutivo europeo che non capisce quanto l’esaltazione dell’origine, della distintività e della tradizione sia nell’interesse dei consumatori europei”.
E.: Qual è, invece, l’approccio prevalente?
S.: “C’è un tentativo di omologare l’alimentazione verso alimenti sempre più uguali a livello globale, più sintetici. È tutta un’unica azione nei confronti della quale la Commissione sembra avere una visione strabica, più che miope: da un lato investe in IGP e DOP, dall’altro sembra sposare sistemi (di etichettatura nutrizionale, ndr) come il Nutri-score che li danneggiano. Ancora, da una parte favorisce alimenti di sintesi e dall’altra è troppo tollerante sulla questione delle indicazioni geografiche”.
E.: Anche a Bruxelles è in corso un dibattito su come modificare le attuali regole sulle indicazioni geografiche e la Commissione UE sembra intenzionata a spostare l’approccio dal legame geografico con il territorio a un approccio più dedicato al marchio. Lei che ne pensa?
S.: “Con la revisione rischiamo di fare il gioco degli americani, sono forme di tutela completamente diverse: le regole di tutela del marchio sono regole trasversali e non tengono conto della complessità e della distintività dei prodotti alimentari che deve continuare a essere legata al territorio. Ed è (un approccio) anche fuori tempo, perché se fino ad ora, il marchio ti dava garanzie di successo a livello globale oggi un marchio non legato alla propria supply chain (catena di approvvigionamento) e alla propria catena del valore, alla propria filiera e ai propri territori, non può competere a livello globale”.
E.: In che modo dovrebbe agire l’UE contro le richieste del Consortium?
S.: “Innanzitutto, tutelando DOP e IGP e non cambiando le politiche da territori a marchi e prendendo posizione con gli Stati Uniti facendo capire a Biden che non ci si può ricordare dell’Europa solo quando si parla di gas e di Russia”.