Roma – Sarà una domenica di passione per partiti e i loro leader alle prese con il grande rebus del Quirinale giunto ormai alle ultime schermaglie. Ultime ma non ultimissime, se si prende per buona anche stavolta la prassi che le mosse tattiche mascherate da trattativa, andranno avanti fino a poche ore dal voto.
L’appuntamento è fissato per il pomeriggio di lunedì 24 e, dunque, è alla vigilia di domenica e lunedì mattina che si faranno gli ultimi giochi. In attesa dello “scioglimento della riserva” da parte di Silvio Berlusconi sono già convocate le assemblee dei grandi elettori dei singoli partiti con le indicazioni per i primi scrutini. Le regole sono note: per i primi tre sarà necessaria la maggioranza qualificata dei 1009 aventi diritto (673) mentre dalla quarta votazione sarà sufficiente la maggioranza assoluta di 505 schede.
Con Berlusconi in campo c’è la quasi certezza che quella di lunedì sarà una falsa partenza con Pd e Movimento 5 Stelle che per mettere le briglie ai franchi tiratori non parteciperanno al voto. Il centrosinistra ha respinto senza appello sia la candidatura del leader di Forza Italia giudicato “divisivo”, sia quella di un nome del fronte opposto caratterizzato e “di parte”, rifiutando anche il vantaggio, da loro rivendicato, di fare la prima proposta. “Il centrodestra sarà compatto” insiste Salvini, il più attivo di tutti nei colloqui (compreso quello con l’arcinemico Giuseppe Conte) ma è evidente che la presenza ancora in campo del Cavaliere resta per tutto lo schieramento un macigno difficile da superare. Il borsino dei voti per il leader azzurro rimane in ribasso, tutti scommettono sulla sua rinuncia ma le mosse successive restano coperte e neppure il vertice annunciato per oggi, sollecitato con forza dalla leader di Fratelli d’Italia Giorgia Meloni, potrebbe scoprirle.
A tre giorni dal voto si può dire che la confusione regna sovrana, perché se il premier Mario Draghi rimane sulla carta il favorito della corsa, la poltrona che lascerebbe rischia di far saltare tutti i delicati equilibri di maggioranza, che a quel punto avrebbe vita breve o comunque molto difficile. Per questo la girandola di colloqui che da Palazzo Chigi sono stati avviati negli ultimi giorni hanno l’obiettivo di trovare un nome, nell’area dei tecnici che possa far proseguire senza troppi scossoni l’avventura di governo. Obiettivo difficile ma è l’unica tela possibile da tessere per superare il doppio scoglio che i partiti hanno davanti con l’appuntamento del tredicesimo presidente della Repubblica.
Con Draghi al Colle servono due accordi e non solo uno perché molti voti dipendono dall’alto rischio di una legislatura che potrebbe finire anticipatamente. Si tratta di una pattuglia composita, voti non controllabili dai partiti, coloro che difficilmente torneranno al prossimo giro elettorale a causa della riduzione del numero dei parlamentari, quelli che sono alla prima esperienza sui banchi e puntano a maturare la pensione che scatta solo dopo un mandato quasi completo. In buona sostanza sono in molti ad avere più a cuore un patto di governo per arrivare alla fine, che l’elezione del Capo dello Stato.
I timori di un brusco ritorno alle urne prendono corpo davanti a un anno cruciale per le sorti del Piano nazionale di ripresa e resilienza la cui riuscita dipende dalla stabilità politica del Paese e dai traguardi delle riforme di sistema promesse alla Commissione europea. Target e scadenze a cui sono legate le prossime tranche dei finanziamenti del Next generation EU e che saranno all’attenzione degli uffici di Bruxelles nella prossima primavera e il rispetto degli impegni sarà determinante per proseguire il programma. Allo stesso tempo, stabilità politica e la riconquistata credibilità internazionale saranno decisive per la sostenibilità del debito accumulato durante la pandemia e per avere una voce autorevole e rispettata al tavolo della riforma del patto di stabilità appena cominciato. Il passaggio dell’elezione del futuro presidente della Repubblica non riguarda dunque solo l’inquilino del Quirinale per i prossimi sette anni: per il Paese la posta è molto più alta.