Bruxelles – Sono reali, eppure non esistono. Sono tanti, e saranno sempre di più, ma di loro continua a non curarsi nessuno. Sono i “rifugiati climatici“, cioè coloro che sono vittime di eventi meteorologici estremi a seguito del surriscaldamento del pianeta. Assistono alla distruzione del loro mondo, e l’indifferenza di tutto il restante mondo. L’Unione europea resta a guardare, per ovvie ragioni politiche. Riconosce uno status in più ai disperati accenderebbe un nuovo capito nella mai risolta questione migratoria. L’UE non riconosce i migranti economici, e nei fatti non li vuole chiunque essi siano. Riconoscere nuove categorie aggiungerebbe un problema in più ad un dossier su cui i Ventisette non riescono a fare a meno di dividersi.
Eppure il fenomeno non è per nulla di limitata entità. Secondo le statistiche pubblicate dall’Internal Displacement Monitoring Centre, dal 2008 oltre 318 milioni di persone in tutto il mondo sono state sfollate con la forza a causa di inondazioni, tempeste, terremoti o siccità. Solo nel 2020 il numero di queste persone ha toccato quota 30,7 milioni. Il Croce Rossa e Mezza Luna Rossa stimano che il numero di persone colpite dai cambiamenti climatici potrebbe raddoppiare entro il 2050, e si rende dunque necessario affrontare lo spostamento annuale di milioni di donne, uonini e bambini in tutto il mondo a causa di disastri ambientali. Purtroppo, poco o nulla è stato fatto.
Il Cento di ricerche del Parlamento europeo, mettendo insieme diversi studi sull’argomento, giunge alla seguente conclusione: “La risposta nazionale e internazionale a questa sfida è stata limitata e la protezione delle persone colpite rimane inadeguata“. L’UE, che fa della sostenibilità e della lotta ai cambiamenti climatici, riconosce il clima impazzito ma ancora non i rifugiati climatici, tutti coloro alle prese con un territorio in cui vivere diventa ancor più impossibile per l’avanzata del degradamento ambientale.
Ciò che aumenta ulteriormente il divario nella protezione di queste persone è che non esiste né una definizione chiara di questa categoria di persone, né sono coperte dalla Convenzione sui rifugiati del 1951. Si trovano dunque in un limbo giuridico, nonostante di ‘rifugiati climatici’ si sia iniziato a parlare nel 1985. O meglio, il programma ambientale dell’ONU (UNEP), usò la dicitura di ‘rifugiati ambientali’ per sollevare il tema di tutte le persone strappate dai loro territori a causa di calamità naturali. Dopo 36 anni da allora, poco si è mosso. Il mondo sviluppato, con i membri UE inclusi, ha continuato a produrre in modo insostenibile, creando nuovi sfollati climatici di cui non ci si vuole curare.
E’ solo a partire dagli accordi di Parigi che la comunità internazionale ha iniziato a occuparsi seriamente del problema, ma non in termini di accoglienza. L’obiettivo, da quel momento in avanti, è diventato fare in modo che le persone non abbandonino il territorio. E’ questa la grande differenza. Non si è agito per riconoscere un rifugiato climatico, si è piuttosto riconosciuto che i cambiamenti climatici possono produrre immigrati.
L’obiettivo della COP26 è costruire un quadro preventivo con difese, sistemi di allerta e infrastrutture resilienti e agricoltura, per rispondere alla perdita di case, mezzi di sussistenza e persino vite causate dai disastri climatici, in modo da prevenire la migrazione indotta dal clima. Tanto è vero che sebbene molti paesi in via di sviluppo abbiano esortato l’UE a concedere lo status di rifugiato ai migranti climatici, i singoli Stati membri dell’UE non hanno sostenuto l’idea di creare una nuova categoria, quella dei “rifugiati climatici”