Bruxelles – Se su un qualsiasi organo d’informazione o comunicato di partito viene riportato che l’UE quest’anno non permetterà ai cittadini di scambiarsi gli auguri di Natale, c’è da stare sicuri che ci si trova di fronte a una notizia falsa, o riportata in malafede. Da Bruxelles non è arrivata alcuna indicazione per cancellare “le radici cristiane dell’Europa” (come scritto nell’interrogazione all’esecutivo UE da parte del vicepresidente del PPE, Antonio Tajani), né per “vietare il Natale e perfino chiamarsi Maria” (secondo un articolo in prima pagina del Giornale di ieri).
Nonostante ciò, la bufera mediatica che si è scatenata attorno al documento interno #UnionOfEquality della Commissione Europea (qui il link), che chiariva alcuni aspetti per una comunicazione più inclusiva, ha costretto l’esecutivo UE a correre ai ripari e ritirare le nuove linee-guida: “Non è un documento maturo e non va incontro a tutti i nostri standard qualitativi”, ha comunicato oggi la commissaria UE per l’Uguaglianza, Helena Dalli. “Per questo motivo ritiro le linee-guida e lavoreremo ancora di più su questo documento“, ha aggiunto, ricordando che lo scopo originario era quello di “illustrare la diversità della cultura europea e di mostrare la natura inclusiva della Commissione”.
Concern was raised with regards to some examples provided in the Guidelines on Inclusive Communication, which as is customary with such guidelines, is work in progress. We are looking into these concerns with the view of addressing them in an updated version of the guidelines. pic.twitter.com/90ZK8rpPb2
— Helena Dalli (@helenadalli) November 30, 2021
Tuttavia, chiunque abbia letto queste linee-guida – che risalgono a ottobre e non sono certo “un’esclusiva” di qualche giornale – non si è trovato di fronte a nulla di scandaloso. In sostanza, l’esecutivo comunitario chiedeva ai propri e alle proprie dipendenti di utilizzare un linguaggio più neutro possibile, che rispecchiasse le diversità di genere, etniche, culturali, di età, di abilità e di orientamento sessuale sul territorio comunitario, in linea con la strategia dell’UE per l’uguaglianza.
Le nuove linee-guida (che integravano quelle già esistenti) servivano per definire ulteriormente come scrivere un documento pubblico in modo uniforme. La Commissione Europea – come il Parlamento, il Consiglio e le agenzie UE – è un’istituzione pubblica, non un organo di partito, e ha bisogno di standard di scrittura omogenei per le comunicazioni interne ed esterne. Per esempio, l’uso dell’inglese britannico, non statunitense (organise, non organize), quali parole richiedono la maiuscola, non utilizzare forme abbreviate o espressioni gergali e altre indicazioni di questo genere.
Ma nel momento in cui la Commissione UE ha approfondito la questione dell’inclusività con (pochi) riferimenti al Natale, più di qualcuno ha deciso di riaccendere la polemica ciclica de “l’Europa ci dice che”. Ecco perché, nonostante per il momento le linee-guida siano state ritirate, è ancora utile chiarire quali richieste di Bruxelles sono finite nell’occhio del ciclone. Che, ricordiamolo ancora una volta, erano destinate per la stesura dei documenti interni della Commissione e non imponevano né vietano nulla ai cittadini europei.
Natale e riferimenti religiosi nei documenti UE
“Qualsiasi linguaggio che esprime intolleranza o giudizio, alimenta stereotipi o individua un gruppo religioso non deve essere riprodotto”, si legge nel documento. Il concetto alla base è di non alimentare attraverso la comunicazione scritta un atteggiamento di pregiudizio verso una certa cultura e di non far sentire qualcuno sul territorio comunitario “diverso” dagli altri.
È per questo motivo che, nella redazione dei documenti dell’esecutivo UE, non si dovrebbe dare per scontato che tutti i cittadini siano cristiani e fare attenzione al fatto che diverse religioni osservano tradizioni e calendari diversi. Al posto di scrivere “il periodo natalizio può essere stressante”, si possono utilizzare espressioni come “le vacanze possono essere stressanti”, o “per coloro che festeggiano il Natale, Hanukkah…”. Non togliere qualcosa a qualcuno, ma far sentire tutti parte dell’Unione Europea. Per la stessa ragione è meglio evitare di scegliere “solo nomi che sono tipicamente di una religione” per scrivere di storie o esempi fittizi. Al posto di “Maria e John sono una coppia internazionale”, si può optare per “Malika e Julio”, tra i tanti nomi propri che le lingue europee mettono a disposizione.
Nonostante non sia stato considerato da nessuno, non c’è solo la religione nel capitolo Culture, stili di vita e credenze. Per esempio, le dipendenti e i dipendenti della Commissione erano stati invitati a non limitarsi a citare solo i Paesi membri UE più grandi, come Francia e Germania, e a non utilizzare il termine ‘europeo’ per indicare i cittadini dell’UE: “Anche ucraini, bosniaci e albanesi sono europei”. Già da qui si capisce che “l’Europa ci dice che” è un concetto errato alla radice.
L’inclusione in ogni forma
Nonostante la retromarcia dell’esecutivo UE, limitare il discorso al Natale o solo all’aspetto culturale è un’altra evidenza che il documento interno è stato riportato in malafede – se mai chi ha scatenato la polemica l’ha davvero letto con attenzione. Da un punto di vista di parità di genere, “bisogna evitare di indicare il genere maschile di default” (il fuoco non è un’invenzione “dell’uomo”, ma “dell’umanità”). Inoltre, essendo il documento riferito alla comunicazione in inglese, si richiedeva di abbandonare le formule desuete di Miss e Mrs (signorina e signora) e di utilizzare il Ms universale.
Per quanto riguarda l’aspetto dell’inclusione delle persone LGBTIQ+, come già presentato nella strategia della Commissione UE dello scorso anno, non bisogna dare per scontato l’orientamento sessuale, l’identità di genere o le caratteristiche sessuali di nessuno. Come regola, “si dovrebbe sempre porre l’accento sulla persona piuttosto che su caratteristiche frammentarie come l’orientamento sessuale, l’identità di genere o l’origine razziale o etnica”. Tra le linee-guida compariva anche la richiesta di includere famiglie non eterosessuali, non cisgender e con un solo genitore, e di fare attenzione all’utilizzo di parole come gay, lesbica e transgender come sostantivi per identificare le persone: “Siate aperti ad aggiornare il vostro linguaggio, perché cambia nel tempo e può differire tra culture e generazioni”, si legge nel documento.
Un altro tema molto delicato è quello degli “stereotipi e pregiudizi subconsci che possono essere ancora presenti dopo un’esposizione secolare al razzismo strutturale e culturale“. Di qui la necessità di evitare immagini semplicistiche di nazionalità e gruppi etnici (“i rom vivono in estrema povertà”, o “gli immigrati africani sono in grado di cercare solo lavori non qualificati”), ma anche di fare attenzione a non vittimizzare o ritrarre gruppi specifici come impotenti e passivi. Riferendosi all’etnia o alla nazionalità di una persona, è preferibile essere più specifici possibile sulla provenienza, nell’ottica di evitare generalizzazioni stereotipate.
L’attenzione era focalizzata anche su persone con disabilità e più anziane. “È importante enfatizzare l’individualità e le capacità di ogni persona piuttosto che definirle con una condizione”, sottolinea il documento. La disabilità non definisce una persona (“si ha” una disabilità, non “si è” disabili), né un gruppo, e per la stessa ragione bisogna evitare stereotipi ed espressioni pietose. Con lo stesso spirito, nella comunicazione che ritrae persone più anziane, c’è da prestare attenzione a non definirle come passive, deboli e indifese.