Bruxelles – In Parlamento europeo c’è chi esulta, soprattutto tra le fila degli italiani, probabilmente per ragioni legate alla politica nazionale. La capodelegazione del Movimento 5 Stelle, Tiziana Beghin, parla di “punto di svolta”, l’esponente del PD, Pierfrancesco Majorino, celebra il “passo fondamentale verso la costruzione dell’Europa sociale per la quale stiamo lavorando”. Oltre le roboanti dichiarazioni però c’è molto meno di quello che si possa pensare. Il Parlamento UE avvia il negoziato sul salario minimo europeo, approva la sua posizione di partenza in un confronto col Consiglio dove molto può ancora accadere. Conterà il risultato finale, e solo quello farà fede.
Gli europarlamentari però sono in vena di esultare, ma è veramente il caso? Il lavoro non rientra tra le competenze esclusive dell’Unione europea. Vuol dire che i governi nazionali che restano padroni delle proprie decisioni in materia. Se mancano misure di sostegno minimo al lavoro è una sconfitta nazionale, e la spinta europea, per quanto una vittoria a dodici stelle, è la rappresentazione dell’incapacità della politica nazionale. I deputati italiani esultano, quando avrebbero potuto lavorare all’interno dei partiti di cui fanno parte per portare al varo di politiche nazionali senza dover attendere il richiamo europeo. Si dice che il silenzio è d’oro, ma evidentemente in politica, quella di oggi, le regole del gioco sono cambiate.
Per ora non cambia niente. Con 443 voti a favore, 192 contro e 58 astensioni, l’Aula del Parlamento europeo ha dato il via libera a discutere di salario minimo europeo, non appena il Consiglio avrà concordato la propria posizione. Il Consiglio su questo è diviso. Ci sono Paesi che hanno riserve, e oltretutto salari minimi esistono già praticamente ovunque (Austria, Cipro, Danimarca, Finlandia, Italia e Svezia i membri UE senza tetti minimo di stipendio). Senza contare che la proposta della Commissione non prevede alcun obbligo di retribuzione minima, per cui gli entusiasmi mostrati in Parlamento europeo al momento appaiono poco giustificati.
La leghista Elena Lizzi, membro della commissione Lavoro, tiene a precisare anche questo, che il testo su cui parte il negoziato “non impone la definizione di un salario minimo europeo”. Precisa quindi che il Parlamento ha lasciato elementi critici per il Carroccio, che si chiede al Consiglio di correggere. Si contestano in particolare “le parti che impongono eccessive condizionalità e oneri burocratici, rappresentando un’ingerenza nelle prerogative nazionali e delle parti sociali”.
La proposta di direttiva su un salario minimo varata dal team von der Leyen a ottobre 2020 mira a stabilire dei requisiti di base per garantire un reddito che permetta un livello di vita dignitoso per i lavoratori e le loro famiglie. I deputati propongono due possibilità’ per raggiungere questo obbiettivo: un salario minimo legale (il livello salariale più basso consentito dalla legge) o la contrattazione collettiva fra i lavoratori e i loro datori di lavoro. Inoltre, il Parlamento vuole rafforzare ed estendere la copertura della contrattazione collettiva obbligando i Paesi UE con meno dell’80% dei lavoratori coperti da questi accordi a prendere misure efficaci per promuovere questo strumento. Tutte proposte, la base di partenza del negoziato sul salario minimo che rischia di essere spacciato per quello che non sarà mai.