Roma – Dall’Italia verso altri lidi europei, la delocalizzazione ha “premiato” soprattutto l’Europa orientale, ma ora al Senato due disegni di legge cercano di porre un freno all’esodo delle nostre imprese.
I numeri, intanto: l’ottanta per cento delle imprese italiane che hanno intrapreso la via della delocalizzazione ha scelto Paesi come Repubblica ceca, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria, Polonia, Romania e Ungheria. Un fatto che coinvolge alcuni tra i principali Stati europei e i dati sul calo della presenza di operai in alcuni di questi Paesi dal 1990 al 2016 lo confermano. In Francia, ad esempio, sono passati dal 20,25 per cento della popolazione attiva al 13,6 per cento. In Spagna sono il 13,8 per cento. In Italia rappresentano ancora il 20 per cento. Nel frattempo nella Repubblica ceca sono saliti al 30,6 per cento, in Slovenia al 27,4 per cento, in Slovacchia al 27,3 per cento, in Ungheria al 24,0 per cento, in Polonia al 23,8 per cento.
Insomma i due tentativi italiani finora effettuati per cercare di frenare la delocalizzazione delle nostre imprese – le disposizioni contenute nella legge di stabilità del 2014 e il decreto “dignità” del 2018- non sono riusciti a impedire un fenomeno che ci sta penalizzando. In particolar modo non si arrestano le delocalizzazioni delle multinazionali che usufruiscono di soldi pubblici e, poi, abbandonano o vogliono abbandonare – del tutto o in parte – il nostro Paese, dalla Whirlpool alla Gkn, dalla Gianetti alla Timken o alla Elica, tanto per citare situazioni attuali.
Ora è la volta di 2 disegni di legge all’esame della commissione Industria del Senato, entrambi con lo stesso obiettivo: contrastare le delocalizzazioni e tutelare i nostri livelli occupazionali. Ma con strumenti diversi.
Una proposta intende rendere più incisive le norme del “decreto Dignità” volte a sanzionare le società che delocalizzano avendo usufruito di agevolazioni da parte del nostro Paese. In particolare si stabilisce che i benefici non si applicano ai progetti delle imprese che, investendo all’estero, non prevedano il mantenimento nel territorio nazionale delle attività di ricerca, sviluppo e direzione commerciale, nonché delle attività produttive, assicurando la salvaguardia dei medesimi livelli occupazionali e la protezione sociale dei lavoratori. E nel caso in cui le imprese avessero ottenuti benefici e successivamente abbiano delocalizzato, le somme corrispondenti ai benefici ottenuti verranno recuperate attraverso una variazione in aumento del reddito imponibile del periodo d’imposta in cui si verifica la cessione a titolo oneroso o la delocalizzazione dei beni agevolati per un importo pari alle maggiorazioni delle quote di ammortamento o ai crediti d’imposta complessivamente dedotti nei precedenti periodi d’imposta.
L’altro disegno di legge punta non tanto a punire chi delocalizza, quanto e soprattutto premiare le aziende che rimangono sul territorio o riportano le attività produttive in Italia. Come? Prevedendo il riconoscimento di un credito d’imposta pari al 30 per cento sul reddito d’impresa imponibile fino a un importo massimo di 1.000.000 di euro per ciascun periodo d’imposta in favore: 1) delle imprese che svolgono sul territorio nazionale tutte le fasi di lavorazione del processo produttivo; 2) delle imprese italiane che abbiano rilocalizzato all’interno del territorio nazionale le proprie attività produttive o commerciali ubicate in uno Stato europeo o extra-europeo o già delocalizzate in tutto o in parte in uno Stato europeo o extra-europeo nei cinque anni precedenti. Inoltre a queste aziende si riconosce, con riferimento ai rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato instaurati, per un periodo massimo di quarantotto mesi, l’esonero dal versamento del 50 per cento dei complessivi contributi previdenziali a carico dei datori di lavoro nel limite massimo di 3.000 euro su base annua.
Ora sta ai senatori, che hanno avviato l’esame in sede redigente, contemperare le due proposte in un testo unificato.