Bruxelles – Disinformazione, odio, violenza, molestie online, accentuazione della violenza di genere. Quando a veicolare messaggi e contenuti divisivi, se non proprio criminali, sono i giganti della comunicazione sul web – da Facebook a Youtube – è ora di chiedersi cosa fanno in concreto queste piattaforme multimiliardarie per creare spazi sicuri per gli utenti che ne usufruiscono quotidianamente. La risposta è che avrebbero le carte in mano per farlo, eppure spesso decidono di non agire, in ragione di una logica del profitto. “Se non prendiamo azioni concrete” in termini di regolamentazione delle piattaforme “vedremo che questo è solo il capitolo iniziale di un romanzo distopico”.
Parole decise che arrivano da chi la realtà di Facebook l’ha conosciuta in prima persona. Frances Haugen, ex dipendente dell’azienda nota ai più per essere la whistleblower (l’informatrice segreta) dell’azienda, ha preso parte nel pomeriggio di oggi (4 novembre) a un dibattito organizzato dalla Heinrich-Böll-Stiftung, una fondazione politica tedesca affiliata al Partito dei Verdi, dedicato a “Odio e violenza digitale: responsabilizzare le piattaforme”. Haugen è responsabile per le recenti inchieste giornalistiche sui ‘Facebook Files’ del Wall Street Journal, per aver rivelato documenti interni alla piattaforma che hanno testimoniato, tra le altre cose, le carenze di Facebook nel combattere la disinformazione, l’incitamento all’odio e più in generale la violenza online sulla sua piattaforma.
A prevalere è la logica del profitto: l’azienda fondata da Mark Zuckerberg mette i profitti di fronte alle persone, sia contro la disinformazione sia di fronte a potenziali effetti negativi di alcune dinamiche sulla salute mentale delle persone. “Guadagna sul tempo che le persone passano sulla piattaforma, avrebbe le carte in regola per affrontare il problema della disinformazione, della diffusione sulla rete di contenuti illegali o lesivi delle persone ma non sta facendo tutto il possibile”, ritiene l’informatrice, sottolineando che l’azienda è sulla buona strada per fatturare circa 45 miliardi di dollari solo nei prossimi 12 mesi.
Haugen è nell’occhio del ciclone in Unione Europea. Questa settimana è stata ascoltata in audizione al Parlamento britannico, mentre lunedì 8 novembre è attesa (con una certa impazienza) anche tra i banchi del Parlamento Europeo. Sceglie come interlocutore di riferimento proprio l’Unione Europea e il tempismo non potrebbe essere più azzeccato, perché a Bruxelles si negozia sulla nuova legislazione europea sui servizi digitali (Digital Services Act) e per il mercato digitale (Digital Market Act), con l’obiettivo di garantire agli utenti della rete di poter accedere in maniera sicura al web quando navigheranno o acquisteranno, e alle imprese di poter competere liberamente sul mercato digitale. Cosa possono o non possono fare le piattaforme, su quali contenuti possono intervenire per eliminarli: tutto ciò deve essere regolamentato da una “normativa forte” ed esterna all’azienda stessa.
L’appello di Haugen – che probabilmente farà anche agli europarlamentari – è quello di dar vita “a un’urgente regolamentazione esterna” per tenere a freno la gestione dell’azienda tecnologica e tamponare eventuali danni che le piattaforme potrebbero arrecare a livello di società. Al momento, le azioni di Facebook, le sue scelte, stanno “degradando le nostre democrazie, stanno rendendo le nostre società più fragili, meno resilienti e il tempo sta finendo, abbiamo bisogno di agire e avere una forte regolamentazione perché le azioni stesse di Facebook stanno rendendo effettivamente più difficile per noi agire sulla regolamentazione di Facebook”. Da qui il monito ad agire “ora e in fretta”.
“A Bruxelles stiamo cercando di scavare a fondo per capire cosa succede nei meccanismi di queste piattaforme”, ha assicurato l’europarlamentare dei Verdi europei Alexandra Geese, relatrice ombra del progetto sul Digital Services Act per l’Europarlamento. “E’ in discussione il modello di società in cui dobbiamo e vogliamo vivere ed è per questo che lavoriamo per dare una solida base di trasparenza” a queste piattaforme online. Evoca la necessità di una “autorità indipendente per valutare i risultati delle indagini, quando avremo accesso a tutti i dati”. Per l’europarlamentare la battaglia per la regolamentazione delle piattaforme si muove anche attraverso la protezione dei dati. “Perché queste piattaforme dovrebbero essere a conoscenza di dati personali che gli consentono di inviarci contenuti già selezionati” sulla base di quelle che secondo l’algoritmo sono le nostre preferenze. E passo dopo passo “portarci a una estremizzazione” dei pensieri. Per Geese il DSA è una grande opportunità e dovrà essere un punto di svolta a livello globale perché “molti altri Paesi stanno guardando al lavoro che facciamo in Europa”.
L’algoritmo accentua la violenza online di genere
Responsabilizzare le piattaforme anche e soprattutto quando nel mirino ci sono le donne. In Europa almeno il 50 per cento delle giovani donne tra 18 e 35 anni è stato vittima di violenza digitale online mentre il 52 per cento delle donne in Europa ha timore a dare la propria opinione sul web, per timore di essere esposte a violenza o odio online, se non anche molestie. I dati sono snocciolati dalla moderatrice dell’evento Anna-Lena von Hodenberg e confermati dalla “gola profonda” di Facebook.
C’è una tendenza – il cosiddetto divario di partecipazione civica – che vede le donne partecipare sempre meno online, soprattutto nelle questioni pubbliche, “in parte perché sono esposte a più violenza rispetto agli uomini”. Molte donne coinvolte nella politica decidono di non ri-candidarsi in futuro “perché temono molestie o minacce online”, che le riguardano più di frequente. Questo dipende in parte da come lavora l’algoritmo di Facebook e l’azienda americana lo sa “da almeno uno o due anni”. Tende a far prevalere online contenuti in cui sono enfatizzati comportamenti o atteggiamenti “negativi e iper-amplificati”, da un post sui disordini alimentari a uno più generico sull’odio o sulla violenza contro le donne. “Facebook non è stato progettato con questa idea, ma è una degenerazione proveniente dall’uso di algoritmi”, ha spiegato Haugen. Questo perché, come spiegavamo prima, la piattaforma guadagna sul tempo che le persone ci passano sopra (vedono più pubblicità, più inserzioni) e il fatto di dover scatenare una reazione nella persona che lo guarda fa sì che l’algoritmo sia sempre alla ricerca di “vulnerabilità o punti deboli” della società stessa, quindi misoginia, razzismo e via dicendo. Anche sul fronte della disinformazione, conclude Haugen, “spiace sottolineare che sono i gruppi più vulnerabili, quelli che già tendono a essere isolati ad essere i più colpiti”. Anche per questo parla di vera “degradazione” della democrazia moderna, e senza un’azione normativa tempestiva il rischio è che la situazione peggiori solamente.