Bruxelles – Non ha ancora fatto in tempo a rimarginarsi la frattura della Brexit con il Regno Unito, che già l’Unione Europea potrebbe essere chiamata a fare i conti con una nuova “exit”: quella della Polonia. Per quanto ancora sia un’opzione remota alla quale nessuno crede seriamente, in tutta l’UE si sta discutendo sulle cause, le implicazioni e le risposte a una possibile Polexit. Ecco perché la sessione plenaria del Parlamento UE che si apre oggi (lunedì 18 ottobre) è attesa come uno degli appuntamenti più decisivi per capire se il punto di rottura è già stato raggiunto o se è ancora possibile tentare la strada del compromesso con Varsavia.
Si entra subito nel cuore della disputa con la discussione sulla crisi dello Stato di diritto in Polonia e il primato del diritto UE, che occuperà tutta la mattinata di lavori di domani (martedì 19). Attesissimo l’intervento del primo ministro polacco, Mateusz Morawiecki, davanti all’emiciclo di Strasburgo. Seguiranno la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, e il ministro degli Esteri sloveno e presidente di turno del Consiglio dell’UE, Anže Logar, che esprimeranno la posizione delle due istituzioni sul conflitto tra la Corte Costituzionale polacca e la Corte di Giustizia dell’UE, prima di lasciare spazio agli interventi degli eurodeputati di tutti i gruppi politici. In merito alle violazioni dello Stato di diritto sarà necessario un confronto anche sulla possibilità di attivare il meccanismo di condizionalità per l’erogazione dei fondi del bilancio pluriennale UE.
In questa settimana di plenaria è in calendario anche la discussione su un’altra questione legata alla Polexit, che ha messo Varsavia nel mirino del Parlamento UE: il divieto di aborto quasi assoluto introdotto di fatto nel Paese da un anno. Durante la seduta di mercoledì pomeriggio (20 ottobre), gli eurodeputati si confronteranno con il ministro degli Esteri sloveno e la commissaria europea per l’Uguaglianza, Helena Dalli, sugli sviluppi della legge entrata in vigore a gennaio 2021. L’Eurocamera sostiene con una larga maggioranza la protesta delle donne polacche, ma ci si aspetta un nuovo scontro con le destre dei Riformisti e Conservatori Europei (ECR) e di Identità e Democrazia (ID) sulle competenze esclusive degli Stati membri e i “valori cristiani” del Paese.
Atteso per giovedì (21 ottobre) alle ore 16:30 il risultato della votazione sul primo dibattito. Per certificare i numeri della maggioranza che si pronuncerà nuovamente contro la legge anti-aborto polacca bisognerà invece attendere la prossima mini-sessione plenaria, in programma il 10-11 novembre.
Per orientarsi
La Polonia è tornata prepotentemente al centro del dibattito europeo sul rispetto dello Stato di diritto dallo scorso 14 luglio, quando la Corte costituzionale polacca ha respinto il regolamento dell’Unione Europea che permette alla Corte di Giustizia dell’UE di pronunciarsi su “sistemi, principi e procedure” delle corti polacche. A far scoppiare la polemica a Varsavia era stata la richiesta della Commissione UE – accolta dai giudici europei – di sospendere provvisoriamente le competenze della sezione disciplinare della Corte suprema della Polonia, dopo alcuni provvedimenti disciplinari contro magistrati non graditi al governo Morawiecki (del partito Diritto e Giustizia).
Il 7 settembre il gabinetto von der Leyen ha richiesto alla Corte di Giustizia dell’UE di imporre una penalità giornaliera al Paese fino a quando non si allineerà all’ordinanza, non avendo rispettato l’ultimatum sull’introduzione di misure conformi alle decisioni del Corte con sede in Lussemburgo. Ma la vera rottura – per cui si è iniziato a parlare di “Polexit legale” anche nei corridoi del Parlamento UE – è avvenuta 10 giorni fa. L’8 ottobre la Corte Costituzionale di Varsavia ha stabilito che gli articoli 1 e 19 dei Trattati (TUE) e diverse sentenze dei tribunali dell’Unione sono “incompatibili” con la Costituzione polacca: la conseguenza diretta è che le istituzioni comunitarie “agiscono oltre i limiti delle loro competenze”.
La sentenza mette in discussione i principi basilari dell’Unione stessa – il rispetto dello Stato di diritto e la supremazia del diritto comunitario su quello nazionale – a partire dalle disposizioni del TUE che consentono all’UE di esaminare la regolarità delle procedure di nomina dei giudici e di rifiutare di riconoscerne la designazione o la destituzione. È stata immediata la replica della presidente della Commissione von der Leyen, che ha assicurato che l’esecutivo comunitario “non esiterà” a fare uso dei propri poteri per salvaguardare “l’applicazione uniforme e l’integrità del diritto dell’Unione”.
Una delle possibilità sul tavolo è quella di applicare la condizionalità del rispetto dello Stato di diritto sull’erogazione dei fondi del bilancio pluriennale UE 2021-2027. Ad aprire a questo scenario, sul fronte della Commissione, è stata la vicepresidente per i Valori e la trasparenza, Věra Jourová: “È giusto pretendere la protezione del denaro dei contribuenti europei”, ha sottolineato in audizione a Roma davanti alle commissioni riunite Esteri e Unione Europea della Camera dei deputati. Il regolamento è stato pubblicato quasi un anno fa, ma non è mai entrato formalmente in funzione: Ungheria e Polonia, dopo aver rallentato le trattative sul bilancio, hanno presentato un ricorso di fronte alla Corte di Giustizia dell’UE per chiedere di verificarne l’ammissibilità.
La Commissione Europea sta continuando a rimandare l’attuazione del meccanismo per l’erogazione dei fondi comunitari, ma è pressata dall’Eurocamera. Giovedì scorso (14 ottobre) la commissione per gli Affari costituzionali (JURI) ha adottato la propria raccomandazione e ha rimesso al presidente del Parlamento Europeo, David Sassoli, la decisione finale sul deferimento dell’esecutivo comunitario alla Corte di Giustizia dell’UE se non verrà applicato lo strumento “nei casi più evidenti di violazione dello Stato di diritto nell’UE”. Il primo passo era stato compiuto proprio dal presidente Sassoli con un avvertimento formale lo scorso 23 giugno, mentre gli eurodeputati si sono pronunciati a più riprese sia per portare avanti l’iter contro la Commissione, sia per attivare immediatamente il meccanismo contro le molteplici violazioni della Polonia.
Il capitolo aborto
Tra queste molteplici violazioni dello Stato di diritto c’è anche la legge anti-aborto. Tutto ha avuto origine il 22 ottobre dello scorso anno, con la sentenza della Corte Costituzionale polacca che ha reso ancora più stringenti i limiti dell’accesso all’aborto: anche nel caso di malattie e gravi malformazioni del feto, l’interruzione di gravidanza è diventata illegale.
Messo alle strette dalle imponenti manifestazioni di piazza che avevano infiammato tutto il Paese per due settimane, il governo guidato dal partito sovranista Diritto e Giustizia (PiS) aveva deciso di rinviare la traduzione in legge della sentenza. Gli eurodeputati avevano avuto modo di condannare l’azione della Corte e del governo polacchi e di supportare le proteste delle donne, prima che la legge cadesse nel dimenticatoio per un paio di mesi. Questo prima della pubblicazione della nuova legge nella Gazzetta ufficiale della Repubblica di Polonia il 27 gennaio, che ha bollato l’aborto come reato, fatta eccezione per casi di stupro, incesto o rischio per la vita della madre.
Nel corso della nuova ondata di proteste a Varsavia, Danzica, Poznan, Rzeszow, Stettino e Katowice erano state arrestate diverse manifestanti, tra cui Klementyna Suchanow, una delle leader del movimento spontaneo di protesta Strajk Kobiet (“sciopero delle donne”). Non si era fatta attendere la condanna degli eurodeputati, che avevano accusato il governo polacco di “giocare con la vita delle donne”, ma da Varsavia era stato alzato un muro contro le “interferenze dell’Unione Europea”. Ora la parola spetta nuovamente all’UE, anche se forse non basterebbe una settimana intera per analizzare tutte le violazioni dello Stato di diritto – compresi gli attacchi alla comunità LGBT+ e i respingimenti illegali di richiedenti asilo – che stanno delineando lo spettro della Polexit.