Bruxelles – Mancanza di assicurazioni sul lavoro, disposizioni di governo, ragioni di sicurezza. La pandemia ha costretto a rivedere il modo di lavorare e ridisegnato la geografia dei posti di lavoro, che si sono spostati dall’ufficio principalmente a casa o in luoghi diversi dal solito ambiente. In questo l’Italia ne è un esempio. I dati Eurostat mostrano come tra il 2019 e il 2020, a cavallo della crisi sanitaria, è nelle regioni italiane che si è registrato il maggior incremento di ore lavorate a distanza.
Il passaggio al telelavoro riguarda in particolare il Lazio, dove il differenziale è del 13,1%, un valore che si colloca nella fascia più alta assegnata dall’Istituto di statistica europeo al fenomeno dello ‘smart working’. Variazioni ‘a doppia cifra’ anche per Liguria (+10,2%) e Lombardia (+11,2%). Nel complesso, nella scala a sei livelli che monitora la ‘conversione’ al lavoro a distanza, un terzo dell’Italia risulta nelle fasce più alte. Ben sei territori (Liguria, Piemonte, Lombardia, Emilia Romagna, Toscana, provincia autonoma di Trento) hanno il secondo miglior adattamento al nuovo regime, a cui si aggiunge il già citato Lazio. Sette regioni su 20 hanno fatto uno sforzo come pochi altri in Europa
Il dato nazionale si spiega però con i ritardi del sistema Paese, poco avvezzo al lavoro a distanza. Come dimostra uno studio realizzato per conto della Commissione europea, L’Italia era agli ultimi posti per numero di lavoratori (dipendenti e liberi professionisti) abituati a lavorare fuori dall’ufficio. Il telelavoro, o smart working che dir si voglia, non è mai stato nelle corde degli italiani. Almeno fino all’arrivo della pandemia e lo scoppio della crisi sanitaria. Tra quanti lavoravano fuori ufficio saltuariamente o anche in maniera continuativa, nemmeno il 5% della forza lavoro attiva ha fatto uso della soluzione alternativa alla scrivania.
Ragioni culturali che rischiano di mettere a nudo limiti strutturali. L’esecutivo comunitario, nella sua analisi, rileva “differenze considerevoli” nella quota di telelavoro tra i paesi dell’UE anche all’interno dello stesso settore. Ad esempio, mentre in Svezia e nei Paesi Bassi oltre il 60% dei lavoratori nei servizi alle imprese ad alta intensità di conoscenza lavorava in telelavoro, questa percentuale era inferiore al 30% in Italia e persino inferiore in Austria e Germania. Questo vuol dire che i Paesi dove si è più preparati ‘delocalizzare’ la vita d’ufficio si continua ad essere presenti, attivi e produttivi. In altri termini, chi non sa lavorare a distanza rischia di rimetterci in termini di competitività.
L’Italia sembra ‘pagare’ per la forte presenza di piccole e medie imprese. “Le aziende più grandi sono in genere più propense ad adottare il telelavoro rispetto a quelle più piccole”, rileva la Commissione europea, e con l’evolversi della pandemia, l’adozione del telelavoro “potrebbe essere più difficile” nei paesi e nei settori in cui le piccole imprese rappresentano quote maggiori di occupazione, e non c’è dubbio che l’Italia rientri in questo caso. Stando ai dati di Bruxelles, le quasi 3,8 milioni di PMI generano il 66,9% del valore aggiunto complessivo dell’economia non finanziaria, superando la media UE del 56,4%, e volumi di affari per 490,9 miliardi di euro.