Quando ancora in Europa si discuteva di transizione ecologica e di New Green Deal, prima dello scoppio della pandemia che ha sconvolto le nostre vite, Carlo Fidanza, eurodeputato di ECR, in un discorso a Bruxelles avvertì dei rischi che i costi della transizione verde in Europa potessero ricadere su consumatori e aziende europei. Fidanza si riferiva al fatto che gli enormi costi che comporta una trasformazione troppo radicale dei processi produttivi e della vita dei cittadini avrebbe potuto avere conseguenze pesanti se caricati sulle spalle di imprese e cittadini, senza un deciso intervento in tal senso dei governi.
L’aumento dei costi dell’energia e del gas che rischia di provocare aumenti del 40 per cento sulle bollette in parte è anche conseguenza indiretta della rivoluzione green dell’approvvigionamento energetico, promosso anni fa a suon di incentivi, pagati grazie alle bollette di luce e gas. Questo piccolo fatto dimostra quanto la sacrosanta e non più rimandabile riconversione green per la salvaguardia dell’ambiente e il contrasto dei cambiamenti climatici non deve esser improntata eccessivamente sull’ideologia di un ambientalismo di maniera che vede tout court le aziende come grandi inquinatrici, senza fare troppe distinzioni di merito.
In realtà esiste una vasta letteratura sul tema verde e su come esso è stato declinato in questi anni dalle aziende e dalla classe dirigente mondiale. Molti hanno approfittato di questo nuovo corso green solo per trarre benefici momentanei ma senza apportare quel contributo all’ambiente richiesto.
È il caso del cosiddetto green washing, che rappresenta quelle politiche adottate da molte aziende che convincono di aver adottato una politica sostenibile o di realizzare prodotti sostenibili, mentre in realtà si tratta di operazioni di puro marketing. Ma anche i moltissimi fondi che investono – o almeno dicono di farlo – in aziende green (circa 1500, per un totale valore nel 2020 di circa 1,7 miliardi di dollari), ma che in realtà solo in piccola parte lo fanno. Almeno stando a quanto sostiene la ong britannica Influence map, che si occupa di crisi climatica e che sostiene in una ricerca di agosto di aver analizzato 723 fondi green e di aver scoperto che il 70 per cento di questi non rispetta affatto il profilo di investitore green.
Il premier italiano, Mario Draghi, discutendo dell’aumento dei costi dell’energia, ha sollecitato l’Europa a fare fronte comune sia per contrastare questi aumenti, sia per fare politiche verdi più incisive nei fatti e non solo a parole. In questo Draghi ha trovato un’immediata sponda nel premier spagnolo, Pedro Sanchez, che ha sottolineato che “è un problema europeo e quindi servono soluzioni europee”.
La Commissione UE, quando a luglio ha presentato il suo piano Fit For 55, ha parlato di nuove tasse sui carburanti, sulla plastica, di voler eliminare entro il 2035 le auto a benzina. Ma quello che sembra mancare è una vera e propria strategia comune, che vada al di là degli slogan e dell’urgenza di mettere mano a una questione non più rimandabile. D’altra parte, la Corte dei conti europea nei giorni scorsi è stato anch’essa molto critica verso il piano Green europeo, accusato di mancanza di coerenza.
Il rischio che si corre è purtroppo proprio quello che la gran parte dei costi sotto forma di adeguamenti normativi e burocratici, tasse e maggiori oneri legati ai cambiamenti dei processi produttivi repentini, ricada proprio sulle imprese e cittadini europei. Mentre i grandi inquinatori, Cina e Stati Uniti, avrebbero un ulteriore vantaggio competitivo, continuando a proseguire con qualche limitazione su emissioni e uso dei combustibili fossili, sulle stesse politiche industriali del passato.
La politica verde è quella che serve per salvare il pianeta e migliorare la vita dei suoi abitanti e delle generazioni future. Ma un passaggio troppo repentino e brusco rischia di stravolgere lo stesso obiettivo e non raggiungere i risultati sperati, peggiorando la vita di imprese e cittadini. Il nuovo improvviso rialzo delle bollette energetiche potrebbe essere allora solo la punta di un iceberg contro il quale l’Europa presto potrebbe rischiare di scontrarsi.