Il glossario delle parole svuotate di significato inizia ad assomigliare sempre più a un vocabolario. ‘Green’, ‘sostenibile’ e ‘resilienza’, solo per citare quelle che sentiamo pronunciare ormai ogni giorno. Ma l’uso indiscriminato di certi termini nasconde rischi importanti, che potrebbero finire per danneggiare lo stesso ambiente che si propongono di salvaguardare. L’Europa? E’ finita dritta dritta in questa trappola.
Si potrebbe parafrasare in questi termini quanto emerso dalla relazione speciale della Corte dei conti europea che punta i riflettori sulla finanza sostenibile nel Vecchio Continente. O meglio, di quanto poco sostenibili siano gli investimenti in Europa.
“L’UE non fa abbastanza per dirigere i fondi disponibili verso attività sostenibili”, è il giudizio tranchant contenuto nella nota della Corte. Il problema? Sono due e viaggiano su binari paralleli. Il primo riguarda il fatto che il mercato non tiene conto degli effetti negativi sul piano ambientale e sociale delle attività non sostenibili. O per dirla con le parole di Eva Lindström, il Membro della Corte dei conti europea responsabile della relazione: “Le attività non sostenibili sono ancora troppo redditizie”.
Aggiungerei che, in termini generali, il mercato finora non ha fatto carte false per rendere la sostenibilità in qualcosa di concreto: molti annunci, sì, ma la pratica non sta al passo. Un dossier di ShareAction, ong che monitora gli investimenti sostenibili, ha fatto le pulci alle banche europee prendendo in considerazione diversi fattori relativi alla tutela del clima e della biodiversità. Ne è emerso che solo 3 banche su 25 hanno previsto azioni nel breve termine, impegnandosi a dimezzare le emissioni derivanti dai loro investimenti entro il 2030.
L’altro problema messo in luce dalla Corte dei conti europea riguarda la mancanza di trasparenza su cosa sia sostenibile. Una questione annosa che la Commissione europea (e non solo) dibatte da anni. La questione, cioè, di dare una definizione chiara e univoca di cosa intendiamo per “sostenibilità”. Un’etichetta che serve non solo ai decisori politici, ma agli investitori e ai cittadini per orientarsi in una selva di parole svuotate.
Il piano d’azione per la finanza sostenibile della Commissione del 2018 ha affrontato questo nodo solo in parte, mostrando divisioni e lacune soprattutto quando si è trattato di mettere a punto un “vocabolario” di cos’è green e sostenibile, la cosiddetta tassonomia.
Dopo lunghe contrattazioni la Commissione ha pubblicato il 21 aprile il suo primo atto delegato per fissare standard comuni per gli investitori pubblici e privati per definire cosa si intende per investimento sostenibile. Peccato che dal documento tecnico siano rimasti esclusi il gas e il nucleare, almeno per ora (i malpensanti sostengono che la ragione sia da ravvisare nelle elezioni tedesche e nella direzione che la Germania prenderà nel dopo-Merkel). “Esistono troppe interpretazioni diverse sulla sostenibilità e questo crea un vero ostacolo nel cambiare l’atteggiamento degli investitori”, affermano i revisori di Lussemburgo.
Continuare ad usare parole svuotate di significato rischia solo di alimentare un ambientalismo di facciata, lo stesso che porta molte aziende e investitori a puntare sul cosiddetto greenwashing, vale a dire la brutta abitudine di far passare per sostenibile un’attività che non lo è.
Se vuole davvero sganciarsi da certe dinamiche e diventare il riferimento globale nella lotta contro i cambiamenti climatici, come i suoi rappresentanti continuano ad affermare a ogni piè sospinto, l’Unione europea dovrebbe abbandonare gli slogan ideologici – così ricchi di parole “vuote” – e optare per scelte concrete e coraggiose.