In un clima di oppressione, di privazione dei diritti e della libertà, si avvia con il Manifesto di Ventotene un percorso di rinascita: la visione di un’Europa libera e unita, l’idea di una rivoluzione democratica vigorosa. Ricorrono in questi giorni, in coincidenza dei drammatici avvenimenti in Afghanistan, gli ottanta anni del documento guida delle generazioni della ricostruzione repubblicana. Nell’estate del 1941, mentre l’armata tedesca dilagava nell’Unione Sovietica, con una forza ancora apparentemente inarrestabile, tre uomini, confinati sulla piccola isola di Ventotene, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi, Eugenio Colorni, solitari combattenti contro la dittatura del Duce, raccolgono in un programma di azione le riflessioni sul futuro di quell’Europa del dopoguerra. Il loro audace e lungimirante scritto, che si chiamava solo “progetto di Manifesto”, venne affidato alla distribuzione clandestina, con le incertezze e i pericoli che ne comportava, divenendo ben presto la pietra miliare del federalismo europeo.
Spinelli, proveniente dal comunismo, Rossi, anticipatore di Giustizia e Libertà, Colorni, militante nel Partito Socialista di Pertini e di Nenni, ritenevano che ci fosse una sola via d’uscita: superare il modello della sovranità nazionale alla ricerca di un’unità superiore al di là e al di sopra di uno Stato – così da limitare la capacità belligerante dei singoli Stati e il potere universale rappresentato dalla Chiesa – e avviare la costituzione di un’Europa federale fra le nazioni.
Di fronte all’emergere delle due nuove potenze continentali, gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica, molte delle nazioni fino ad allora dominanti sarebbero state destinate a perdere progressivamente gran parte della loro influenza. Negli uomini di Ventotene l’Europa unita sorgeva come “terza forza” fra le due grandi potenze.
Le affermazioni di Colorni, Rossi e Spinelli non aprivano una tendenza interamente nuova: esse rivisitavano ed aggiornavano un concetto già sviluppato di Europa calandolo nel vivo della situazione politica internazionale. L’idea dell’Europa come unità continentale e organizzatrice di popoli era nata due secoli prima, nel Settecento, nel clima dell’illuminismo e del cosmopolitismo, innestandosi sulla tradizione cristiana. Esemplare l’opera “La riorganizzazione della società europea” di Saint Simon e Thierry, edita nel 1814, in cui si trova il primo audace progetto di una società sopranazionale che, sebbene non abbia ancora i caratteri di uno Stato federale nel senso rigoroso del termine, si spingeva oltre il sistema confederale di Stati teorizzato da Kant.
Sino alla fine della secondo conflitto mondiale, il principio di Federazione aveva nutrito le speranze di intere generazioni ma ancora non si era tradotto in un movimento politico. Il Manifesto segna un momento di svolta trattandosi non solo di una dichiarazione di principi ma altresì di un programma di azione. “Occorre sin d’ora gettare le fondamenta di un movimento che sappia mobilitare tutte le forze per far nascere il nuovo organismo che sarà la creazione più grandiosa e innovatrice sorta in Europa”– si legge nel Manifesto – e ciò è realizzabile attraverso la propaganda e l’azione.
Fra i tre intellettuali sussistono delle differenze sui vari attori del processo europeo, con una comune maggiore simpatia verso gli Stati Uniti. Sono ben consapevoli che il processo di federazione europeo, a differenza di quello americano, sarebbe stato lungo e non immediato. Ernesto Rossi infatti notò che la via per il superamento della sovranità nazionale sarebbe stata tortuosa “con abbozzi di legami federali fra i vari Stati, tentativi esitanti e contrastanti”.
Oggi l’Unione Europea ha cessato di essere utopia divenendo nel corso dei decenni realtà. Una realtà messa alla prova e, talvolta, in discussione dal corso degli avvenimenti recenti. Il particolarismo ideologico rappresenta il peggior nemico, quello da immunizzare al pari di un virus che si annida nel corpo ed è capace di mutare. Mettiamo a profitto gli insegnamenti del passato, difendiamo la democrazia e lo Stato di diritto per continuare a costruire la nostra “casa comune”.