Otto per cento. E’ in questo numero otto, certo non prossimo allo zero ma indubbiamente piccolo, che si nascondono gran parte delle difficoltà nel cammino del pacchetto “Fit for 55”, quell’insieme di regole che nel prossimo paio d’anni dovrebbero dare all’Unione europea gli strumenti per rispettare l’obiettivo della neutralità climatica che si è imposta per legge per il 2050.
Otto per cento è la quota mondiale di emissioni di CO2 prodotte dall’Unione europea. Certamente poche, ma già non più pochissime se si considera, ad esempio, che gli europei sono solo circa il sei per cento della popolazione mondiale. Considerando invece che, secondo i dati della Banca Mondiale, l’UE produce circa il venti per cento del PIL mondiale, allora il nostro otto diventa un numero virtuoso.
Però questo numero è la trappola nella quale si resterà impantanati per i prossimi anni, perché è la trincea dietro la quale si barrica l’industria europea, dicendo, come ha fatto il suo presidente Pierre Gattaz, che le aziende “hanno già fatto tanto” ricordando che “negli ultimi 15 anni, l’industria europea ha già ridotto le proprie emissioni di quasi il 35 per cento”. Al di là delle (tante) richieste specifiche per procedere vero il Fit for 55, è una barricata evidente, che trova molti alleati anche nei governi europei.
Quell’otto per cento vuol dire anche che il novantadue per cento delle emissioni nocive per il clima vengono dal resto del Mondo, quel resto del Mondo con il quale l’Unione ha il trentasei per cento dei suoi scambi commerciali, e dal quale compra gran parte delle sue energie (petrolio, gas).
Dunque la battaglia europea per il clima ha un fronte interno ed uno esterno, forse il più difficile da affrontare. Qui la “Commissione geopolitica”, che abbiamo già visto essere debole, se non inesistente, dovrà smentirci, riuscendo a trovare, innanzitutto, un equilibrio tra le posizioni dei singoli governi dei Ventisette e la sua proiezione internazionale, e poi dovrà stupirci nel riuscire a convincere la Cina, l’India, la Russia, cioè i fornitori di prodotti e di energia che consumiamo, ad accettare un nuovo rapporto con l’Unione che sconvolgerà i loro piani di crescita. Anche con i ritrovati amici degli Stati Uniti il programma europeo potrebbe portare, come minimo, a delle incomprensioni, vista la loro ben maggiore quota di produzione di CO2 e i loro ritardi, rispetto all’UE, nei programmi di contenimento.
Non dimentichiamo, infine, un altro fronte interno, quello dell’aumento dei costi per i cittadini, che sarà affrontato con il Fondo Sociale per il Clima, 72 miliardi (stimati) che dovrebbero aiutare i meno ricchi ad affrontare i cambiamenti necessari, evitando che ci sia una nuova ondata europea di “Gilet gialli” che faccia saltare tutto il progetto.