Bruxelles – Chi paga per i danni ambientali provocati dall’inquinamento? Troppo spesso sono i contribuenti europei attraverso i fondi pubblici, anche se in UE vige il principio “chi inquina paga” che è alla base di tutta la normativa europea in materia ambientale. Lo sottolinea la Corte dei Conti europea che nella relazione sul “principio chi inquina paga” pubblicata oggi (5 luglio), che ne ha analizzato l’applicazione in quattro settori della politica ambientale dell’UE: inquinamento industriale, smaltimento dei rifiuti, gestione delle risorse idriche e uso del suolo.
Il principio è adottato dall’Unione Europea nella direttiva del 2004 sulla responsabilità ambientale delle imprese e vincola chi inquina a sostenere i costi dell’inquinamento causato, compresi quelli delle misure adottate per prevenire, ridurre e porre rimedio all’inquinamento nonché i costi che questo comporta per la società. Il principio è pensato come misura di prevenzione, per far sì che chi inquina sia spinto a evitare i danni ambientali per non doverne poi ripagare le conseguenze. In realtà, applicarlo è più difficile di quanto sembri e i revisori di Lussemburgo hanno concluso che viene applicato in misura diversa e non uniforme dalle politiche europee, persistono debolezze nel quadro normativo che dovrebbero spingere la Commissione Europea a rafforzarlo. Come richiesto anche dal Parlamento europeo in una recente risoluzione.
Italia, Portogallo e Polonia finiscono nel mirino della Corte di Lussemburgo: per verificare l’applicazione del principio nel caso di progetti cofinanziati con i fondi europei, la Corte ne ha analizzati 42 per un valore di 180 milioni di euro tra Fondi strutturali e di investimento europei (fondi SIE) e del programma ambientale LIFE che avevano come obiettivo la riqualificazione ambientale di siti. Di questi, 19 progetti sono in Italia, 10 in Polonia e 13 in Portogallo e riguardano il finanziamento nel periodo 2014-2020 ma per ragioni di riservatezza la Corte non ha potuto menzionare i nomi dei siti o delle aziende coinvolte. Questi Stati membri – precisa la Corte – sono stati selezionati in base al numero di casi segnalati.
Sul fronte industriale, il principio si applica attraverso la direttiva sulle emissioni industriali del 2010 ma solo agli impianti più inquinanti (quelli più piccoli non sono coperti). Tuttavia, in caso di danno ambientale causato da emissioni autorizzate la maggior parte degli Stati membri non obbliga le industrie responsabili a un risarcimento e non impone neppure alle industrie di sostenere i costi dell’impatto dell’inquinamento residuo, che ammonta “a centinaia di miliardi di euro”, stima la Corte. Tra i 42 progetti di bonifica ambientale viene menzionato il caso italiano di “un grande impianto siderurgico responsabile di inquinamento atmosferico, scarico di materiali pericolosi ed emissione di particolato” condannato dalla Corte di Cassazione italiana nel 2005.
Il nome non c’è ma il riferimento dovrebbe essere all’ex Ilva di Taranto, per cui secondo la Corte di Lussemburgo l’Italia non ha rispettato la direttiva sulle emissioni industriali provocando “significativo inquinamento”. Nel 2019, ricorda la Corte, in appello è stato concesso al Comune italiano di riferimento un risarcimento, che però la società che ha causato il danno non era in grado di pagare. Bruxelles ha poi finanziato un progetto da 375mila euro per affrontare il problema dell’inquinamento in un altro comune “vicino all’impianto siderurgico”, in cui un’analisi ambientale ha individuato “una grave contaminazione industriale che comporta rischi significativi per la salute”.
Sul fronte dei rifiuti, la normativa UE impone agli Stati membri di applicare integralmente il principio “chi inquina paga”, ma molti dei costi non sono coperti e sono necessari ingenti “investimenti pubblici per centrare gli obiettivi stabiliti in materia di riciclaggio”, osservano da Lussemburgo. Lo stesso viene osservato per quanto riguarda la gestione delle risorse idriche e degli inquinanti specifici, per molte imprese il prezzo dell’acqua non copre i costi determinati dalle sostanze inquinanti che esse rilasciano nelle acque. Quanto all’ultimo ambito, la Corte ricorda che non esiste un quadro generale dell’UE relativo alla protezione del suolo, ancora, ma solo varie politiche ambientali che cercano di frenare la pressione sull’ambiente.
Inquinamento ‘orfano’ e assenza di garanzie finanziarie
La Corte si sofferma anche sul cosiddetto inquinamento orfano, quando la contaminazione di un sito è talmente vecchia che l’inquinatore non esiste più, non può essere individuato e non può essere obbligato a risarcire il danno. Dei 42 progetti analizzati dai revisori di Lussemburgo, 20 riguardano questo tipo di casi, che la Corte stima in 62,1 milioni di euro. Ed è una delle ragioni principali per cui l’UE ha dovuto finanziare progetti di bonifica di ex impianti o siti che avrebbero dovuto essere pagati dagli inquinatori, ma non trovando il responsabile a cui far pagare la colpa è toccato al bilancio europeo.
Ma ci sono anche casi in cui l’utilizzo dei fondi pubblici dell’UE è avvenuto semplicemente in violazione del principio “chi inquina paga”, ad esempio quando le autorità degli Stati membri non hanno applicato la normativa ambientale e non hanno obbligato gli inquinatori a pagare. Ed è anche il caso dell’Italia: tra 2014 e 2020 la Corte ha osservato otto progetti in Campania di discariche di rifiuti urbani che hanno ricevuto 27,2 milioni di euro di fondi europei per ripulire l’inquinamento provocato quando la legislazione ambientale dell’UE era già in vigore, evidentemente non rispettata. Le autorità pubbliche italiane – sottolineano i revisori – non hanno imposto agli operatori di ripulire l’inquinamento provocato. “Questo utilizzo dei finanziamenti dell’UE non rispetta il principio chi inquina paga”, concludono.
“Per raggiungere gli obiettivi ambiziosi del Green Deal europeo con efficienza ed equità, chi inquina deve pagare per i danni ambientali che provocano”, ha dichiarato Viorel Ștefan, il Membro della Corte dei conti europea responsabile della relazione. “Fino ad oggi, però, troppo spesso i contribuenti europei sono stati costretti a sostenere costi che avrebbero dovuto essere a carico di chi inquina”. C’è un ultima debolezza strutturale su cui si sofferma la Corte e riguarda il fatto che nella maggior parte degli Stati membri le imprese non hanno garanzie finanziarie sufficienti, come polizze assicurative a copertura della responsabilità ambientali. Per cui anche quando falliscono, i costi della bonifica dei siti finiscono per essere sostenuti dai contribuenti attraverso il bilancio comune. Solo sette Stati membri (Italia, Repubblica Ceca, Irlanda, Spagna, Polonia, Portogallo e Slovacchia) richiedono garanzie finanziarie per alcune o per tutte le passività ambientali, ma a livello europeo queste garanzie non sono obbligatorie.