(ha collaborato Renato Giannetti)
Bruxelles – Uno Stato membro dell’UE “non è obbligato” a limitare la superficie delle aree in cui un determinato operatore è legittimato a svolgere attività di prospezione, ricerca e coltivazione di idrocarburi, quali petrolio e gas naturale. Quello che è obbligatorio è “garantire un accesso non discriminatorio a tali attività a tutti gli operatori pubblici e privati, indipendentemente dalla loro nazionalità”. Inoltre, “per proteggere l’ambiente”, gli Stati possono imporre condizioni e requisiti per l’esercizio delle attività di ricerca.
Questo il principio di diritto secondo l’avvocato generale Gerard Hogan, che suggerisce alla Corte di giustizia dell’UE come comportarsi nel caso dell’Italia, e più nello specifico della Puglia e dell’attività di prospezione ed estrazione. La questione delle “trivelle” è giunta fino a Lussemburgo, dopo la controversia tra Regione Puglia e il ministero dell’Ambiente per le condizioni per il rilascio dell’autorizzazione alla prospezione di idrocarburi.
Il litigio è divenuto materia di dispute legali in Italia, e il Consiglio di Stato vuole sapere come comportarsi. Vuole sapere se la direttiva europea che regola l’attività di prospezione ed estrazione di idrocarburi sia in contrasto con una normativa nazionale che, da un lato, impone, per ottenere un’autorizzazione alla prospezione di idrocarburi, la fissazione di un’area geografica avente una determinata superficie massima e, dall’altro, consente di superare il limite di tale superficie massima mediante il rilascio contestuale di altre autorizzazioni di prospezione, per aree contigue, allo stesso operatore, essendo sufficiente che dette autorizzazioni seguano distinte procedure amministrative. A questa domanda l’avvocato generale suggerisce alla Corte di rispondere in senso negativo.
La direttiva non impedisce l’adozione di leggi che permettono il rilascio di più autorizzazioni allo stesso operatore, anche se i permessi coprono un’area complessivamente più estesa rispetto ai limiti fissati da tale normativa per un singolo, purché siano rispettati i criteri di trasparenza e non discriminazione nell’accesso ad attività di estrazione, e purché sia garantita e favorita la concorrenza.
C’è poi la questione ambientale. “Quando è necessario effettuare una valutazione sull’impatto ambientale, le autorità nazionali devono tenere conto dell’effetto cumulativo dei progetti”, sostiene l’avvocato generale. Ciò al fine di “evitare che la normativa dell’Unione in materia ambientale sia aggirata” tramite il frazionamento di più progetti che, considerati congiuntamente, possono avere un notevole impatto ambientale.
In sintesi: si può fare, ma a determinate condizioni. Ora la parola alla Corte.
COSA SIGNIFICA PER L’ITALIA
Se la Corte dovesse condividere l’impostazione dell’avvocato generale, gli australiani di Global Petroleum potranno operare nell’adriatico. Nel 2013, la società australiana attiva nel settore degli idrocarburi offshore, ha presentato quattro domande alle autorità italiane per ottenere quattro permessi di ricerca di idrocarburi in aree tra loro adiacenti e localizzate nel mare Adriatico, al largo della costa pugliese. Ciascuna di tali richieste concerne un’area dalla superficie di poco inferiore ai 750 km2. Questo perché la normativa italiana norma che l’area oggetto di un permesso di ricerca non può succedere i 750 km2. Nel 2016 e nel 2017, il governo ha dichiarato la compatibilità ambientale dei quattro progetti di ricerca presentati dalla Global Petroleum, anche tenendo in considerazione il loro effetto cumulativo. E’ qui che è nato lo scontro la Regione Puglia.
L’avvocato sostiene che, se certe condizioni sono rispettate, gli australiani potrebbero avere le carte in regola per attivare le trivelle.