PREMESSA – A marzo del 2020 la pandemia costringe tutti a casa. È un’esperienza squilibrante. Colpito nel profondo, uno scrittore dai molti lavori in corso scopre da un giorno all’altro di non poterne proseguire più nessuno e sa, al contempo, che se non scrivesse impazzirebbe. Nasce così questo pugnello di racconti, spontanei come il sudore di una malattia; senza altra esigenza che la legittima difesa. Ora che lo squilibrio è diventato regola, provano a uscire dal nascondiglio. Un po’ alla volta, piano piano.
Normalmente, di fronte a una limitazione di libertà così profonda come l’attuale, avrei dato i numeri. “Normalmente” però è fuori luogo; le limitazioni imposte dalla pandemia non sono accostabili a nulla che attenga al concetto di normale, che è un concetto peloso e scivoloso attorno al quale si potrebbe polemizzare per mesi senza venire a capo di nulla. Anche se, polemica a parte, mi sembra che peloso e scivoloso non andrebbero usati per aggettivare lo stesso sostantivo, perché una cosa pelosa non mi sembra per nulla anche scivolosa; anzi, al contrario, sarebbe scivolosa se fosse completamente glabra. Ma vabbè, sorvoliamo, altrimenti le digressioni mi si mangiano con tutte le scarpe (le “scarpe”, va da sé, sarebbero mie e non delle digressioni, sempre che, nella prosa anche più sfacciatamente incline alla prosopopea, fosse possibile immaginare una digressione calzata; mentre una digressione calzante, invece, ci starebbe tutta). Quindi toglierei il “normalmente” e ricomincerei così.
Per come sono fatto io, al pensiero di un mese di vita già sottratta alla mia volontà, e di fronte alla prospettiva di chissà quanta vita ancora dovrò condurre in un isolamento che non m’è mai capitato in settantasei anni, neanche quando avevo scelto io d’isolarmi, non per misantropia ma perché mi garbava starmene con pochi compagni lontano dal fallimento rivoluzionario (se si può chiamare tale, quanto accaduto tra l’esplosione di possibilità del ’68 e l’esplosione delle bombe di piazza Fontana che sul finire del ’69 hanno iniziato a chiudere il discorso), dicevo che comunque di fronte a tanta perdita di libertà avrei dato i numeri, e invece, mi trovo a peregrinare da una finestra all’altra al solo scopo di vedere strade sempre uguali per quanto sono deserte e anche per come ospitano ogni giorno le stesse auto parcheggiate di qua e di là, tanto nessuno le usa, a parte qualcuno che a volte ci sale ma solo per scaldare il motore e dare conforto alla batteria, e l’unico cambiamento percettibile è qualche raro pedone imbavagliato con in mano il sacchetto della spesa o della spazzatura, o sennò il guinzaglio del cane, e tutti camminano in mezzo alla strada quasi non si fidassero dei marciapiedi, così stretti che se per caso incroci un altro che come te sta fuori per le stesse ragioni c’è il rischio di doverlo, non dico sfiorare, ma avvicinare al punto da vederne gli occhi e scoprire che ti guarda con la stessa superiore diffidenza con cui anche tu lo guardi, e questo non fa piacere perché ti costringe ad ammettere che in quell’incidentale specchio in cui ti sei riflesso per un attimo hai visto la tua faccia da untore, insopportabile per te che fino a quel momento hai trattato il mondo come se tu fossi costantemente in fuga per non venire unto dalla invisibile malattia degli altri che per statuto, malgrado a volte le apparenze sembrino suggerire il contrario, in realtà sono potenzialmente sempre sporchi, brutti e cattivi. E se anche non lo fossero, resta che ogni guaio, in genere, è comunque colpa loro.
Quando non peregrino tra le finestre, che per fortuna hanno due affacci diversi e questo è già qualcosa, salgo a camminare con Marisa sulla terrazza condominiale in un’ora presta in cui siamo certi di non trovare nessuno. Gli unici habitué che a quell’ora sgambettano – in pigiami che sembrano tute, o in tute che sembrano pigiami – stanno infatti solo sulla terrazza vicina, e c’è soprattutto una signora della mia stessa età con la quale, appena i rispettivi girare in tondo ci mettono a portata di vista, scambiamo calorosi segnali di saluto (Marisa le dice anche buongiorno) che sono un po’ come un abbraccio a distanza, e lì ogni volta penso che tutti, ora, se potessimo farlo, abbracceremmo tutti, chi capita capita, e la città così riaperta alla vicinanza diventerebbe una grande orgia benefica di abbracci e baci e sguardi e strette di mano e pacche sulle spalle e manate sulla nuca e sulla schiena, come un grande giocare tutti insieme a schiaffo del soldato, dove però nessuno starebbe sotto i colpi degli altri ma tutti toccherebbero tutti, e lo farebbero in un modo così rapito che non ci si renderebbe conto che magari ci stiamo toccando da soli e questo vorrebbe dire che le nostre parti ci erano diventate talmente estranee da non riconoscere come propria la propria mano e nemmeno come propria la propria faccia il proprio culo, e non conterebbe molto, in questa meravigliosa possibilità, stare a sottilizzare su chi avesse la faccia come il culo e neanche, forse, su chi avesse il pelo sullo stomaco o la faccia di bronzo, perché bronzo e pelo e faccia e culo, nostri e degli altri a pensarci bene, sarebbero belli da toccare e anche da commentare con semplicità contadina, se si vuole, con l’innocenza credulona di chi è felice di rinascere e anche col dolore di chi dovesse vivere tutto questo con la tristezza del revenant. Tutti insieme ad andare insieme di qua e di là a piedi in macchina coi bus e con la metro e anche con i tram e i treni urbani; e andremmo e torneremmo da Fiumicino Aeroporto per sentirci viaggiatori che partono e viaggiatori che arrivano, e accoglieremmo con abbracci e cori d’incitamento chi avesse la fortuna di arrivare davvero e saluteremmo con lacrime di incondizionata fiducia nel futuro chi avesse la fortuna di partire davvero.
Ecco, il pensiero di una tale possibilità, malgrado la fatica dell’isolamento, mi suscita una specie di stracco buonumore, mi lascia in una leggerezza un po’ estenuata ma piacevole da gustare. Va da sé che mi guardo bene dal parlarne Marisa, perché non sono proprio sicuro che certi pensieri a vanvera non sarebbero letti da lei come il segno di un crollo psichico imminente, e io tutto voglio, in questo difficile isolamento condiviso, tranne che allarmarla. E così quando mi si rivolge in modo interrogativo, cosa che capita con una certa frequenza, chissà perché, io mi limito a sorriderle e basta, consapevole di poter approfittare dell’aria perplessa con cui mi guarda, un’aria nella quale spicca, silenziosa ma ben delineata, la domanda più ovvia in certi casi: ma che ci avrai da ridere?
E pare chiaro, altresì, che per solida saggezza femminile lei, ancorché aspettarsi una risposta, è subito pronta a sostituire quella domanda silenziosa con un’altra ben più esplicita e cristallina che subito ci unisce con indubitabile forza animale: che ci mangiamo a pranzo? Orbene, vigendo fra noi una costituzione nei cui primi articoli si specifica chiaramente che l’onere della cucina spetta a me (lei ne ha di altrettanto decisivi) la domanda suona come un sano invito al realismo di coppia, non c’è che dire; un invito che poi, pavlovianamente, traduco dentro di me nella forma ultima e definitiva così riassumibile: cosa cucini per pranzo?
A quel punto io, per quanto acerrimo nemico dello show don’t tell, raccomandato come un dogma in tutte le scuole di scrittura creativa, ed esatto con burocratica pignoleria da ogni editor dei miei stivali che da anni infligge vessazioni su vessazioni all’editoria italiana, nella particolare circostanza, quasi a mo’ di licenza poetica, anziché risponderle con le parole del tell, preferisco mostrarglielo con i gesti dello show, e senza porre ulteriori indugi, armato della più rassicurante espressione, sollevo le sopracciglia in modalità “aria ispirata”, le regalo uno sguardo complice e vado di corsa a cucinare.
I profumi che da un certo momento in poi si aggirano sornioni tra cucina e soggiorno hanno una duplice e delicata funzione. Da una parte, testimoniano che il rumore di piatti e casseruole risuonato da un’ora buona nel silenzio a vetro doppio della casa non era dovuto a un inconsulto armeggiare fra pensili, cassetti e lavastoviglie; cosa a volte accaduta, al punto da potersi costituire come legittimo precedente. Dall’altra, fanno da annunciazione olfattiva del cibo che a breve sarà servito a tavola, e qui la faccenda assume tratti, se possibile, ancora più delicati. Prendiamo un esempio su tutti, e anche se per motivi dietetici è uno dei meno frequentati da noi, riesce a essere abbastanza esemplare del genere di conflitti che non si prestano facilmente a pacifiche risoluzioni: la pastasciutta.
Ohibò, potrebbe esclamare qualcuno, perché mai un piatto così innocentemente diffuso sulla tavola di noi italiani dovrebbe dare luogo a problemi di coppia? Semplice: considerando scontato un accordo sui condimenti (quindi vanno bene amatriciana, ragù, aglio olio e peperoncino, gricia, carbonara, pesto, tonno, sarde, bottarga, cime di rapa e tutto l’innumerevole compendio di ricette regionali), una volta risolta la non facile scelta fra i tipi di pasta – che non si riduce a lunga o corta perché tiene conto anche delle diverse modalità di trafilatura e delle differenti qualità di grano impiegato – il casus belli rimane la cottura, ovvero quanto al dente è degno e giusto consumarla. Comprenderete come il conflitto (io sono per un dente rigido, lei per un dente flessibile) non si può risolvere tirando via prima la pasta per me e poi quella per lei. Intanto perché il doppio registro, oltre a richiedere due diversi contenitori con la salsa in cui far saltare la pasta, mi obbligherebbe, dopo aver scolato e magari anche condito la mia, a occuparmi della sua, e questo causerebbe un ristagno della mia che, come i puristi sanno, si tradurrebbe in ulteriore cottura, che vorrebbe dire passare dal dente rigido al dente flessibile. Come uscirne?
Fortuna ha voluto che entrambi nutrissimo scarsa o nulla fiducia nella guerra; né lei né io, infatti, siamo così sciocchi da credere che la prova di forza, qualunque ne sia l’esito, possa generare risultati durevoli. Che vinca l’uno o l’altro, lo sconfitto finirebbe per covare inevitabilmente desideri di rivalsa e questo creerebbe una sorta di tensione permanente, oltre a sempre nuovi conflitti. Un dispendio di preziose energie che potrebbero, invece, essere destinate a miglior causa, essendo sia lei che io, nonostante l’età avanzata (la mia ben più della sua), impegnati in attività intellettuali che richiedono entrambe, per essere ben svolte, energie in abbondanza e atmosfere domestiche giuste.
Ergo, abbiamo deciso che una volta la pasta la mangiamo al dente rigido e una volta al dente flessibile. Sembra una sciocchezza, l’alternanza, ma a pensarci bene non è sbagliato risparmiarci continui casus belli. Anche se c’è una dissimmetria in questo armistizio che, per quanto bizzarro, rimane a nostro avviso il modo più equo di risolvere il conflitto. Ed essa risiede nella diversa capacità di proselitismo delle due soluzioni. Mentre mangiare la pasta al dente flessibile, infatti è un’eresia bella e buona, dovuta solo all’ignoranza dei fondamenti alimentari che regolano il consumo di un alimento così ricco di declinazioni e sfaccettature (di notevole si segnala solo il mio dimesso sacrificio, quando è il turno sfavorevole), mangiarla al dente rigido potrebbe, prima o poi, educare l’ignorante fino a fargli apprezzare e scegliere in modo definitivo la vera modalità di cottura che fa della pastasciutta una indiscussa eccellenza fra le eccellenze alimentari. Meritevole di galatei e regole la cui inosservanza riduce in modo drastico il piacere. Perché la perfetta pastasciutta esiste, non è un’opinione, e rispettare il modo per arrivare a cucinarla non è più costoso né più complicato che disattenderlo. È un po’ come in certa edilizia urbana minore. Quanta se ne vede di brutta; di inguardabile, a volte. E non è che edificare case belle e armoniche comporterebbe costi maggiori. No, molta bellezza (l’equivalente della bontà, nel gusto) non esige spese ulteriori. Negarsela, potendo averla, è solo un danno sciocco che ci infliggiamo, chissà perché.