PREMESSA – A marzo del 2020 la pandemia costringe tutti a casa. È un’esperienza squilibrante. Colpito nel profondo, uno scrittore dai molti lavori in corso scopre da un giorno all’altro di non poterne proseguire più nessuno e sa, al contempo, che se non scrivesse impazzirebbe. Nasce così questo pugnello di racconti, spontanei come il sudore di una malattia; senza altra esigenza che la legittima difesa. Ora che lo squilibrio è diventato regola, provano a uscire dal nascondiglio. Un po’ alla volta, piano piano.
Quando avevo aperto il quaderno indiano (nel senso del quaderno fatto in India, da dove era tornata l’amica che me lo aveva regalato) non sapevo che ci avrei scritto le prime parole di questo racconto che, per riconoscenza, ho intitolato “Il quaderno indiano”, anche se il titolo (questo lo so ex post) non c’entra niente col racconto. C’è da dire che, a parte le frasi iniziali, leggibili nonostante la mia grafia si sia incarognita a forza di digitare su una tastiera, il racconto non sa assolutamente dove andare a parare (né lo sa l’autore, che dal racconto, in genere, è abituato a farsi dirigere).
Per fortuna (bisogna sempre approfittarne, quando capita), la notazione sull’andare a parare suona già come un implicito orientamento, perché il verbo parare, che ho appena usato nel senso di tendere, mirare a un determinato effetto o scopo, soprattutto con le proprie parole, (come riporta il Treccani on line) mi ha subito fatto venire in mente i miei lontani trascorsi calcistici. Sì, perché nella squadra con cui, alle superiori, avevo disputato alcuni tosti tornei parrocchiali, io giocavo nel ruolo di portiere. Comprensibile, quindi, in quale doverosa e unica accezione per diversi anni io lo abbia inteso il verbo “parare”.
A quei tempi, sul retro delle maglie, che fossero a righe o in tinta unita – e parlo di un periodo in cui, oltre alle solite squadre, in serie A giocavano anche la Pro Patria, di Busto Arsizio, la Spal di Ferrara, e la Triestina, che era di Trieste come la Stock 84, sponsor della radiocronaca di una partita – a quei tempi, dicevo, sul retro della maglie non solo non c’erano i nomi dei giocatori, ma neppure gli alti numeri che si usano oggi. Allora il concetto era molto semplice. Dal portiere all’ala sinistra tutto si sviluppava lungo la lineare consequenzialità dell’undici (non a caso, sinonimo di squadra) per cui se il portiere era il numero 1, al numero 2 c’era il terzino destro, al 3 il terzino sinistro, al 4 il mediano destro, al 5 il centromediano, al 6 il mediano sinistro, e l’attacco comprendeva il 7 dell’ala destra, l’8 della mezz’ala destra, il 9 del centravanti, il 10 della mezzala sinistra e l’11 dell’ala sinistra. Ora, siccome a quei tempi il gioco era “a uomo” e non “a zona”, come oggi (a uomo, ogni giocatore marca sempre lo stesso avversario; a zona, ogni giocatore marca il giocatore che passa nella zona di sua competenza), il terzino destro marcava l’ala sinistra avversaria, il terzino sinistro doveva vedersela con l’ala destra, e così via, specularmente, dieci contro dieci a scorrazzare per il campo; a ciascuno il suo uomo da marcare, nel caso di difesa e mediana; a ciascuno i suoi difensori da superare, nel caso di attaccanti. Schema fisso, tipo il calcetto da tavolo (o calcio Balilla, come amenamente si chiamava allora); solo, senza possibilità di frullo.
Essere il portiere, in tale ordine, equivaleva a essere il numero 1. Si può mai trascurare il peso simbolico di tale circostanza? No, è ovvio, anche perché, passando dal simbolico al reale, essere portiere comportava un unico, grande dovere: parare. Avrei cioè dovuto fermare tutti i tiri avversari indirizzati in porta, in qualunque modo: di piede, di mano, di faccia, di corpo, respingendo, deviando o bloccando il pallone, meglio bloccandolo piuttosto che deviandolo o respingendolo, perché se lo avessi deviato sarebbe finito in calcio d’angolo (ed è sempre pericoloso subire un calcio d’angolo), e se lo avessi respinto non avrei mai saputo fra quali piedi o su quali teste sarebbe finito il pallone. È altrettanto ovvio che il mio dovere si limitava ai soli tiri parabili, perché sugli imparabili – e ne capitavano, accidenti a loro, salvo interventi in extremis, il che, però, soddisfazione a parte, declassava automaticamente il tiro da imparabile a parabile – non c’era niente da fare e tanto meno da recriminare. Dopo un gol imparabile, infatti, tutti gli spettatori pensavano, ma in modo così intenso da equivalere a un dire anche più intonato di quello espresso a voce: “Certo, è gol, ma gli ha fatto un tiro imparabile” e accompagnavano il commento con scuotimenti di testa, braccia allargate e, di rado, sopracciglia spinte verso l’alto fino a corrugare la fronte.
Quell’unanime assoluzione proveniente dagli spalti, quando c’erano, e sennò dagli spettatori aggrappati alla rete che recintava il campo – avvertita dal portiere attraverso le orecchie della coscienza lesa, mentre si chinava a recuperare il pallone e lo calciava di malavoglia verso il centrocampo – un po’ leniva la sua pena. Semmai, ma questo riguardava l’allenatore, c’era il problema di quale difetto tattico avesse consentito a un attaccante avversario di fare un tiro imparabile. A meno che la cosa non fosse dipesa dalla enorme capacità di calciare a rete da posizioni impossibili o da distanze proibitive, e qui di solito, se la squadra avversaria aveva un attaccante con tali doti, il solo consiglio valido dell’allenatore – ma stavolta bisbigliato impassibile all’orecchio di chi di dovere, e non detto a voce alta con la solita grinta – era uno solo: appena puoi, rompigli una gamba.
Andava così sulla nuda terra dei campi al Tuscolano e al Prenestino, dove l’erba vellutata di certi impianti odierni era un sogno proibito; e di sicuro andava così al campo di Santa Maria Ausiliatrice che, chissà perché, nel torneo interparrocchiale era considerato il nostro campo di casa, anche se la mia squadra, di cui non ricordo assolutamente il nome, proveniva per dieci undicesimi dall’Istituto Tecnico Commerciale Leonardo da Vinci; noi dieci interni più un fuoriclasse dal nome esotico (per via di una W che non mi ricordo bene se stava nel nome o nel cognome) cooptato con qualche stratagemma dall’allenatore per dare lustro a un insieme pieno di idee chiare, se si trattava di commentare le partite altrui e, quanto alle proprie, capace solo di buona volontà che però, pure utilizzandola tutta insieme, non arrivava a fare la classe necessaria a meritarsi buone posizioni in classifica.
Lo spogliatoio, poi, gelido e male illuminato, puzzava irrevocabilmente di piedi; ma non di piedi sporchi per cui uno diceva, vabbe’, lavati i piedi ed è risolto, no, puzzava di piedi puliti, lavati, di piedi che però conoscevano la fatica improba di perdere spesso, e si preparavano, senza sforzo alcuno, ad affrontare un nuovo pellegrinaggio al calvario di una partita che era in teoria contro una squadretta da papparti in due bocconi, e poi invece quelli ti mettevano sotto che neanche una schiacciasassi avrebbe fatto così male. E questo rischio incombente di non farcela, ruminato per ore dalla maggior parte di noi giocatori (escluso forse il fuoriclasse col W nel nome o nel cognome), secondo me si traduceva in una secrezione anomala di umori malati che andava a colpire i primi responsabili di quello stato di cose, cioè i piedi; quasi che nei corpi giovani di allora esistesse una giustizia autarchica per cui le parti dalle quali si ricevevano piaceri e soddisfazioni venivano premiate con lucori e profumi improvvisi, mentre le responsabili di smacchi e di altri fallimenti si portavano dietro, perché tutti lo sapessero (il vituperio ha radici profonde) aspetti grifagni e lo stigma olfattivo delle loro sciagurate attitudini.
In questa parata di lontane inclinazioni (ho detto parata e mi scuso, ma avrei dovuto capirlo che non avevo talento, quando fui scartato a un provino per i pulcini della A.S. Roma), prende corpo, nella forma sbalzata che più corrisponde al suo malinconico destino, la figura sorridente di mio padre il quale, al contrario dei tecnici dell’A.S. Roma riteneva che io possedessi alcune indiscutibili doti che gli sembrava delittuoso non valorizzare. Per favorire una mia possibile affermazione in un campo che lui amava molto ma nel quale non aveva mai potuto investire niente di suo (nascere nel 1909 da un’operaia e da un bidello, vivere l’infanzia tra le conseguenze del primo conflitto mondiale, e iniziare l’adolescenza sotto il peso del fascismo equivaleva a competere per l’oscar della sfiga), mio padre s’era trasformato nel mio preparatore personale.
A casa mi sottoponeva con metodo (chissà dove aveva imparato?) a tutta la ginnastica prevista per i portieri, una serie di esercizi ai quali devo muscoli dorsali ipertrofici; e questo, alla lunga, o mi ha causato i ricorrenti mal di schiena che verso i cinquanta mi hanno obbligato a diventare un adepto del Sinflex Forte, oppure (non lo saprò mai) mi ha salvato da guai peggiori in cui sarei incorso senza tutto quello stare bocconi per terra ad arcuarmi a braccia larghe verso l’alto, dieci, quindici, venti volte, mentre mio padre mi teneva fermi i piedi.
Le prove pratiche avvenivano su un campetto scaciato ma con porta regolamentare anche se priva di rete; io tra i pali e lui al limite dell’area di rigore a bersagliarmi con tiri da tutte le posizioni, e non erano mosciarelle, le sue, ma vere e proprie suatte che se non ci andavo di pugno, a respingere, mi spezzavo le mani. Una fase successiva aveva riguardato il lavoro sul senso della posizione, cioè su come un portiere deve seguire l’andamento del gioco offensivo avversario per trovarsi sempre nel punto dal quale difendere la più ampia porzione di porta possibile (è larga sette metri, accidenti a lei). Grande attenzione la dedicava anche a insegnarmi le uscite giuste, ovvero quell’andare incontro all’avversario che si avvicina palla al piede così da restringergli il più possibile lo specchio della porta. Insomma, con le dovute accortezze, quegli immensi sette metri, un portiere ben piazzato e capace di uscite tempestive riusciva a ridurli di molto.
Certo, poi mio padre, come si dice, non si faceva mancare nulla, quanto a sorprese; dopo avermi insegnato ben bene come si esce incontro all’avversario, un giorno, all’improvviso, si era beffato di tutto quello che avevo imparato scavalcandomi col più mellifluo dei pallonetti. Morale, se l’avversario che avanza è tutto furia e potenza, tu portiere lo puoi anche neutralizzare; ma se quel disgraziato ha anche cervello e freddezza, tu portiere sei fregato, perché se invece della caracca quello, sulla tua uscita, fa partire il più molle e ingiurioso dei pallonetti, non hai scampo. Normale che poi, come diceva mio padre col suo fatalismo casareccio, ti roda il chiccherone quando prendi gol su pallonetto. E in effetti era proprio così come diceva; altro che se rodeva il chiccherone, rodeva e anche tanto. Devo confessare che io questa storia della posizione giusta ho anche provato a estenderla dal calcio alla vita; fosse mai che si tratti di una lezione esportabile? Oggi, penso che il motivo per cui il progetto non è andato in porto potrebbe dipendere, molto semplicemente, dal non aver saputo definire, fuor di metafora, a cosa far corrispondere la porta, nella vita).
Ma voglio chiudere questo resoconto sulle prime pagine scritte nel quaderno indiano, con un’ultima cartolina dal passato calcistico, prima che le dita dolgano a forza di stringere la penna (sembra che la fatica di scrivere a mano sia inversamente proporzionale alla qualità delle cose scritte) e prima che la pazienza del lettore ceda per il troppo sostare su un argomento che in fondo riguarda solo me, e che io, poiché ho superato il periodo più difficile della pandemia scrivendo queste cose, ho deciso di rendere pubblico; convinto che un esercizio dimostratosi benefico per me, potrebbe diventare tale anche per chi, da lettore, percorre itinerari simili.
La cartolina con cui mi congedo riguarda sempre mio padre e gli allenamenti da portiere ai quali mi aveva sottoposto con lo stesso metodo e precisione di quando realizzava le pergamene finto/cinquecentesche che gli commissionavano i capiufficio attivi per omaggiare il capoufficio che andava in pensione; un piccolo straordinario col quale, di tanto in tanto, arrotondava. Naturalmente, da buon allenatore, non si limitava a farmi eseguire gli esercizi fisici ma veniva anche ad assistere alle partite. Si piazzava dietro la mia porta per soccorrermi coi commenti o i consigli del caso. Un giorno – era una di quelle domeniche invernali in cui la pioggia e il freddo sono così puntuti da far sembrare piacevole anche la puzza di piedi dello spogliatoio, se paragonata alla ferocia dell’uscire e battersi a sangue in quella melma che, tempo dieci minuti, ci avrebbe resi tutti irriconoscibili anche agli occhi esperti di un fanghino – non so bene a quale minuto del secondo tempo fossimo arrivati (ma so che era il secondo tempo, perché ricordo l’impegno a resistere per difendere il risultato a tutti i costi) un attaccante avversario, che somigliava all’Uomo d’Argilla dei fumetti per il fango che aveva addosso, galoppa (insomma, arranca) palla al piede e da solo verso di me, nessun difensore prova a recuperare, sarebbero sforzi inutili, la melma ha tagliato le gambe a tutti, è come se sul campo del Santa Maria Ausiliatrice aleggiasse, alla stregua di un contorto spirito santo, la dura sentenza del momento: che il destino si compia. Ma io, forse, il fango ce l’ho anche nelle orecchie perché lì per lì non la sento la sentenza del destino che ha da compiersi, e un po’ per istinto, un po’ per non sfigurare agli occhi di mio padre, vado con tale autorevolezza verso l’attaccante che riesco a deviare la sua cannata, resa micidiale da un pallone pesante il doppio per l’acqua e il fango assorbiti dal cuoio, ma dopo aver esploso il tiro quella bestia non si rende conto di avere davanti un essere umano (l’apparenza lo autorizzerebbe a ingannarsi) e invece di saltarmi, come da galateo, mi dà un calcio in faccia e mi lascia tramortito. Accorrono mio padre e i compagni, e mi ripuliscono dal fango per constatare, come si dice, il danno. Appurato che solo l’articolazione della mascella risultava un po’ compromessa (a distanza di tanti anni ancora scrocchia) e che né ematomi né sbreghi mi avevano alterato la bellezza, mio padre, la cui indole mite e mai manesca avevo sempre apprezzato ogni volta che le lamentele serali di mia madre su quanto l’avessi fatta arrabbiare non si traducevano, come accadeva agli altri amici coi loro padri, in botte da orbi anche con la cinghia dei pantaloni, ecco, quel giorno lui, improvvisamente aveva provato a scagliarsi verso quello che mi aveva colpito (come avrà fatto a riconoscerlo se avevamo tutti la stessa maschera di fango?) e io, per prevenirlo, ero schizzato da terra con bello scatto di reni (a qualcosa erano serviti gli ipertrofici muscoli dorso-spinali) e avevo messo distanza tra lui e la vittima designata, chiunque fosse; e a pacche sulle spalle e abbraccetti l’avevo convinto a lasciar perdere, anche perché (ero stato pignolo nel suggerirglielo ma mi sembrava una buona estrema ratio) aveva molte probabilità di prendersela con l’attaccante sbagliato, compreso il rischio, addirittura, di picchiare uno della mia squadra, tanto il fango ci aveva resi identici.
Avrò avuto sedici anni, sedici anni e mezzo, quando accadeva tutto questo e già riuscivo a barcamenarmi niente male in quella faccenda a metà strada fra uomini e futuri uomini. Naturalmente evito di aggiungere cosa m’ispira il verbo barcamenare se solo provo a scomporlo secondo le suggestioni del significante, perché sia “barca” che “menare” sono piene di sviluppi autobiografici che aspettano solo di dire la loro, e se non li tengo a bada, davvero, qui si riparte per la tangente e non ne usciamo più.
Che non c’entri il quaderno indiano? E se nascondesse una misteriosa magia orientale capace, col trucco della grande accoglienza, di trattenere fra le sue pagine gli incauti che per entusiasmo vi si sono avventurati? Qualora fosse, non mi avrà. Come un Alfieri al contrario, sarò capace di slegarmi dal sortilegio, alzarmi dal tavolo e lasciare libera la sedia. Abbandono la contesa, per me finisce qui. Le sirene sono troppo più forti e io non ho nessuno che m’impedirebbe di seguirne il canto. E se anche l’avessi, ascoltarlo indenne non basterebbe a salvarmi.
Guardate il callido Ulisse, in apparenza protetto dalla sua fama di vincente; l’epos non ne fa parola, ma dopo tanto penare per raggiungere la sua isola, tempo qualche mese è ripartito da Itaca con una scusa barbina equivalente all’odierno “vado a comprare le sigarette”. Penelope, sollevata, gliel’ha lasciato fare perché anche lei, francamente, non ne poteva più. Che ora lui si aggiri per il Mediterraneo come un’anima in pena, cacciato via in malo modo da tutte le spiagge alla moda di cui potrebbe rovinare la vocazione turistica, serve solo a ricordarci la vanità di certe sfide. E cosa sono, al confronto, i nostri fallimenti?
(L’immagine è tratta da https://calcio.polisportivarondinella.it/news)