SLOVENO
Na sredi našega življenia pota
sem znašel v hoste mračni se goščavi
ker ravno pot mi je preprla zmota.
Težko z besedo oživi v predstavi
ta osta divja pred peklà obalo,
ki že spomin njen me v nov strah pripravi.
Še smrt od nje boli bridka je le malo;
prej ko o rešniku v nji pa jel bom peti,
povem, kaj še oko je v nji zaznalo.
Ne vem, kako sem mogel v njo dospeti,
tako me sna omama je zatela,
ko sem zapustil pravi pot začeti.
FRANCESE
Au milieu du chemin de notre vie
je me retrouvai par une forêt obscure
car la voie droite était perdue.
Ah dire ce qu’elle était est chose dure
cette forêt féroce et âpre et forte
qui ranime la peur dans la pensée!
Elle est si amère que mort l’est à peine plus;
mais pour parler du bien que j’y trouva,
je dirai des autres choses que j’y ai vues.
Je ne sais pas bien redire comment j’y entrai,
tant j’étais plein de sommeil en ce point
où j’abandonnai la voie vraie.
FINLANDESE
Elomme vaelluksen keskittiessä
ma harhaelin synkkää metsämaata
polulta oikealta poikenneena.
Ah, raskasta on sanoa kuink’oli
tuo salo kolkko, autio ja sankka!
Sit’aatellessa vielä muisti säikkyy.
Ei kaameampi itse kalma liene;
mut koska hyvää myös ma Löysin sieltä,
kuvata muutkin tahdon tapaamani.
Ed tiedä, kuinka tuonne tuttlut olin;
niin horroksissa ollut lien ma silloin,
kun jätin, koito, tien ma todellisen.
INGLESE
Half way along the road we have to go,
I found myself obscured in a great forest,
Bewildered and I knew I had lost the way.
It is hard to say just what the forest was like,
How wild and rough it was, how overpowering;
Even to remember it makes me afraid.
So bitter it is, death itself is hardly more so;
Yet there was good there, and to make it clear
I will speak of other things that I perceived
I cannot tell exactly how I got there,
I was so full of sleep at that point of my journey
When, somehow, I left the proper way.
EUROPANTO
Des meine life nel medio van der way
finde myself in eine bosco scuro
de justa via nesciente donde stay.
Dicere wat ich felt est mucho duro
porqué van de foresta racontante
der terrible horrore non enduro
So close was aan der morte semblante;
Aber por say der bene dat Ich finde
shal Ich descrive wat was Ich voyante.
How zum ingehen raconte no potest
porqué op ein momento sleepingante
correcta meine via hadde geloste
Una delle lingue in cui avete appena letto tradotti i primi undici versi della Divina Commedia non esiste. Non è neppure una lingua artificiale. Semplicemente, non c’è, non è codificata. Eppure vi è sembrato di capire qualche parola seguendo la lettura, di cogliere un vago significato. Questa lingua inesistente si chiama europanto ed è una mia personale invenzione.
Provando a darne una definizione, si può dire che l’europanto è un miscuglio di parole prese da diverse lingue e composto seguendo l’istintivo principio grammaticale innato nel genere umano. Le ultime ricerche di neurolinguistica stanno infatti dimostrando che la grammatica è qualcosa di genetico. Scrive Andrea Moro nel suo saggio « I confini di Babele » riportando un pensiero di Noam Chomsky: « Il fatto che tutti i bambini normali acquisiscano grammatiche praticamente comparabili di grande complessità con una notevole rapidità suggerisce che gli esseri umani siano in qualche modo progettati in modo speciale per questa attività ». Da adulti, quando la spontaneità del nostro cervello si è richiusa come il ghiaccio e non possiamo più imparare senza ragionare, anche se non comprendiamo una lingua, noi ne percepiamo comunque la grammaticalità, la riconosciamo come qualcosa di noto.
Gli esperimenti di Andrea Moro hanno dimostrato che un locutore, sollecitato ad apprendere strutture di una lingua sconosciuta ma autentica mescolate a false strutture di una lingua inesistente che non risponde alla logica della grammatica, distingue la “agrammaticità” di quest’ultima con l’incapacità di apprenderla. Così anche l’europanto, che non esiste e che non potete conoscere, voi lo avete inconsciamente capito perché è prodotto secondo gli innati canoni della grammatica universale.
Tecnicamente, l’europanto si appoggia ad una struttura grammaticale inglese primitiva, quella a cui ormai tutti un poco ci siamo familiarizzati per la forza delle cose. Il tempo passato, i verbi modali, alcuni avverbi e preposizioni sono tutti derivati dalla grammatica inglese. Al tedesco l’europanto prende in prestito un po’ di congiunzioni, di quelle che si capiscono anche senza sapere il tedesco, come “mit” oppure “und”. Il tutto corretto con un po’ di spagnolo, che dà l’impressione di togliere l’eccessiva asperità.
L’europanto non è unico e immutabile. E’ possibile modulare il miscuglio di cui è composto dando preminenza all’una o all’altra famiglia linguisitca, purché se ne conservi sempre la massima accessibilità. Per capire l’europanto non è necessario nessuno studio. Il puro testo è immediatamente comprensibile, anche se a diversi gradi. Spesso è la ripetizione dell’elemento linguistico a produrre la comprensione e a consolidarla. In altri termini, più ci si espone all’europanto, più facilmente lo si comprende. Ritrovando le stesse forme in contesti diversi, si arriva per esclusione al loro significato.
Quanto al vocabolario, le parole dell’europanto provengono da diverse lingue ma per la loro natura sono universalmente comprensibili e in europanto diventano produttive di altre parole ancora. Muchacha, bazooka, blitzkrieg, hasta la vista, buffet, coiffeur, kaiser, hooligan, pizza, mamma, napoli, mafia, kindergarten, würstel, macaroni, kaputt, bundesbank, chili-con-carne, bravo, cabriolet, maestro, penalty, kick-off, corrida, paella, corner, canapé, panzer, spaghetti, sombrero, sayonara, chauffeur, allegro, sono tutte parole che hanno una loro intrinseca « comprensibilità » in molte lingue. L’europanto le usa per rompere la barriera del suono dell’incomprensione e far passare sia pure un lampo di significato. Se a proposito di un automobilista vi viene detto che el was schumacherante op der autopista, voi non siete sicuri di aver capito, ma recepite comunque un messaggio. Qualcosa di rosso, di veloce, di prepotente, di antipatico o tutte e quattro le cose insieme, è passato sull’autostrada.
La parola schumacherante non esiste in nessuna lingua, eppure voi l’avete capita. Questo in fondo è il principio fondamentale dell’europanto. Meno tecnicamente, si può dire che l’europanto è nelle lingue quel che il jazz è nella musica. Un’improvvisazione che si rende comprensibile a seconda del contesto e dell’universo linguistico in cui viene suonato. In effetti un’altra cosa comune a tutte le lingue è la loro intrinseca musicalità. Ve ne siete appena accorti ascoltando queste letture. La prima cosa che vi è saltata all’orecchio è la diversità della musica. Ogni lingua ha un suono diverso, è un diverso strumento musicale con le proprie regole e la propria armonia.
L’invenzione dell’europanto non ha uno scopo preciso, non fa parte di un progetto di rivoluzione linguistica. L’origine è invece piuttosto ludica, suscitata dalla conoscenza di diverse lingue e dalla frequentazione di un ambiente internazionale. Se di gioco si tratta, è innegabile però che esso nasconda qualcosa di vero. Molto si è detto sulla traduzione e sulla difficoltà della trasposizione di un significato da una lingua all’altra. Ogni riflessione a questo riguardo parte dal una sola verità. La parola profonda, quella più carica di significato e legata ad esso dal vincolo della sonorità non si può tradurre. Al massimo la si può spiegare.
Ogni lingua è una musica e nessuna musica è traducibile in un’altra. Lo aveva già scoperto Dante quando diceva : « Nulla cosa per legame musaico (musicale) armonizzata si può della sua loquela in altre trasmutare sanza rompere tutta sua dolcezza ed armonia ». Poesia e musica dunque non si traducono, si ascoltano e basta. Dante aveva avuto anche la grande lucidità di distinguere fra « poete volgari » e « prosaici dittatori » come chiamava lui i locutori comuni, facendo la differenza appunto fra poesia, lingua alta e lingua colloquiale. Le lingue dunque non si ripetono nel raccontare il mondo. Ognuna dice le cose in modo impercettibilmente diverso e a frequentarne tante si percepisce come il significato di ogni cosa sia sparso un poco in tutte e che se si potesse riunirle sarebbe possibile, per così dire, fare più colmo il vaso di ogni significato. Perché di ogni lingua si utilizzerebbero le parole di volta in volta più efficaci.
Questo è il gioco dell’europanto, che chiaramente non ha nessuna pretesa di scientificità e che vuole solo essere una provocazione, un antidoto contro l’intolleranza linguistica, un’incitamento a studiare davvero le lingue, e quelle vere. Infatti, quel che soprattutto l’europanto non vuole essere è una lingua artificiale universale. La lingua unica non è mai esistita e se ogni tentativo di produrne una artificialmente è fallito esiste una ragione profonda. La lingua è un fenomeno naturale che l’uomo non controlla. Esiste prima di noi e continua ad esistere dopo di noi. Serve esigenze che noi non vediamo, vive, si trasforma e muore per cause che noi non comprendiamo. E poi, soprattutto, troppa è la molteplicità umana per poterla dire solo con una lingua.
Tornando ancora brevemente all’europanto, vediamo come l’aspetto ludico di questa lingua inesistente aiuti a percepire la lingua per quello che è, cioè uno strumento duttile, che serve tutte le forme della comunicazione, dal dire al nascondere, dal riconoscersi al differenziarsi. Scavalcando il muro ideologico della grammatica, il gioco permette di avere un accesso alla lingua attraverso le somiglianze, ma anche attraverso l’equivoco e l’errore che diventano indirettamente produttivi di significato. In fondo è questa l’idea che nutre tutta l’invenzione linguistica dantesca. E cioè la straordinaria efficacia di una lingua che può essere libera dal suo canone, che può in fondo sfuggire al vincolo di una grammatica definitiva e nutrirsi a diverse fonti di significato, accettando al suo interno morfologie diverse.
La nostra civiltà ci ha abituati a considerare la grammatica come l’elemento essenziale che dà ordine alla lingua e la fa funzionare attraverso le sue regole. Questa concezione della grammatica è fortemente legata all’uso politico che in Europa si è fatto della lingua con la nascita dello stato nazionale. Tracciando le sue frontiere in territori dove le lingue vivevano in una condizione di mescolanza, lo stato nazionale ha mutilato per sempre la varietà linguistica dell’Europa. Nasce così l’idea che le lingue siano come religioni e che non si possa appartenere all’una ma anche all’altra. Questo uso ideologico della lingua ha provocato nelle nazioni europee danni irreparabili e ancora oggi continua ad essere purtroppo al centro del sistema identitario di molti paesi.
Basti osservare le differenziazioni linguistiche che si sono prodotte nei paesi dell’ex-Iugoslavia dopo le guerre degli anni Novanta. Lingue un tempo simili e senza distinzioni ben definite, si sono accanite a distaccarsi l’una dall’altra creando addirittura il paradosso dell’inesistente lingua bosniaca. A Zagabria o a Belgrado ancora oggi si rischia il linciaggio se andando a comperare il pane, delle due parole che il serbocroato aveva, si usa quella sbagliata. Fin dall’inizio dei movimenti di costruzione nazionale che scaturiscono dalle rivoluzioni di metà Ottocento, la lingua diventa strumento di identificazione e differenziazione. In Francia si parla francese e in Italia italiano. Lo stato nazionale porrà la lingua accanto alla bandiera fra la simbologia sacra della patria. Esistono sì le minoranze linguistiche , ma la loro definizione dice già tutto. Minoranze è troppo vicino a minorato. La minoranza linguistica è vista come una malattia, da cui si deve guarire e che non puo’ essere una condizione permanente. Il rispetto della lingua e della sua grammatica diventa una questione di civismo, di patriottismo. In realtà, da un punto di vista prettamente linguistico la grammatica è sempre e soltanto la fotografia di una lingua in un determinato momento della sua perenne evoluzione. Prima viene la lingua, poi viene la grammatica a descrivere come funziona.
Questa differenza fra lingua e grammatica la notava già Dante, in un tempo in cui le lingue non avevano ancora la valenza ideologica di identificazione nazionale che hanno oggi. Nel De vulgari eloquentia si legge :
« lingua volgare è quella che, senza bisogno di regole, impariamo imitando la nostra nutrice. C’è poi un’altra lingua, per noi seconda, che i Romani chiamarono grammatica. Di queste due, la volgare è più nobile e perché fu per prima usata dal genere umano e perché se ne serve tutto il mondo, ancorché sia divisa in differenti pronunce e vocaboli. »
Dante lo aveva già capito dunque che lingua e grammatica non sono necessariamente la stessa cosa e che ogni lingua unica prima o poi si frammenta, perché non c’è unicità nel vivere umano.
Oggi l’apparente provvisorietà della nostra lingua ci smarrisce. Parole straniere la attraversano in continuazione, la contaminano, mettono radice, ne seminano altre. Ci sono cose che non riusciamo più a dire in italiano e che si dicono ormai solo in inglese o in un italiano precario, instabile. Telefonini e posta elettronica erodono anche la grafia delle parole che finiamo per non riconoscere più. Ci sentiamo assediati dall’inglese e dai significati nuovi che attraverso di lui la modernità ci butta addosso. La nostra lingua cambia in continuazione, usiamo parole di cui non conosciamo bene il campo semantico, se perdiamo anche solo brevemente il contatto con la quotidianità della televisione, della stampa e della volatile attualità, sentiamo che la lingua ci è già sfuggita di mano. Eppure, questo fenomeno di trasformazione di una lingua è sempre esistito e Dante lo aveva osservato già nel 1300, quando scriveva:
“L’uomo è uno instabilissimo e mutevolissimo animale, la sua lingua non può essere duratura né continua, ma come tutte le cose nostre, ad esempio usanze e costumi, finisce per cambiare nel tempo e nello spazio; noi notiamo appena quello che si muove a poco a poco, e quindi quanto più il cambiamento di una cosa vuole tempo prima di essere percepito, tanto più facilmente siamo indotti a pensare che la cosa sia stabile. Non c’è allora da meravigliarsi se gli uomini più sciocchi, il cui cervello è poco diverso da quello delle bestie, credono che in una stessa città si sia sempre usata nella vita civile una lingua immutata visto che il mutamento di una lingua vi si realizza sono in un lunghissimo arco di tempo, mentre la vita dell’uomo è invece, per sua stessa natura, brevissima.”
Siamo consapevoli che dalla trasformazione del latino sono nate le lingue neoromanze e da evoluzioni analoghe tutte le altre che oggi si parlano in Europa. Questo non ci ha mai disturbato in passato. Perché oggi sì? Forse perché oggi la tecnologia ci fa vivere in un tempo accelerato dove il mutamento che ai tempi di Dante era impercettibile diviene invece fortemente visibile. Questo ci fa paura, ci dà l’impressione di perdere assieme alla nostra lingua la nostra identità. Dimentichiamo che paradossalmente una lingua è più forte quando non è ferma, che per una lingua trasformarsi è come stare a galla, solidificarsi è invece andare a fondo. Conosciamo l’accanimento con cui i francesi difendono la loro lingua da ogni influenza straniera e ne conservano quel che credono essere la sua intrinseca purezza. Con grande efficacia l‘Académie française provvede sempre un neologismo francese ad ogni nuova parola della modernità. Dall’aeronautica all’informatica, non c’è campo del sapere più avanzato in cui non si possa dire tutto rigorosamente in francese. Paradossalmente, nel lungo termine questo atteggiamento rischia di indebolire anziché rafforzare una lingua. Il francese oggi è una lingua rigida, dove ogni parola ha una data di entrata nell’uso e una data di espulsione dal dizionario. Le parole estromesse vengono dimenticate. Un francese di oggi avrebbe una grande difficoltà a capire il francese dei tempi di Dante.
Al contrario l’italiano, nel suo disordine, mantiene una vitalità e una varietà singolare. I regionalismi, i dialetti, la coesistenza di forme diverse, la mancanza in fin dei conti di una grammatica e di un uso ufficiale, fanno sì che la nostra lingua sia come un ghiacciaio che muovendosi porta in superficie parole scomparse centinaia di anni fa ma per noi ancora comprensibili. Pensate a ancella, pulzella, maniero o fantesca. Senza essere di uso corrente le comprendiamo, anzi hanno assunto col tempo un siginificato diverso da quello che avevano in origine. In fondo, quella che noi parliamo è ancora la lingua di Dante. E’ lui che ci ha insegnato, se vogliamo metterla così, a non buttare via niente della nostra varietà linguistica senza per questo nulla togliere alla sua correttezza e comprensibilità.
C’è un’altra lingua che oggi ci preoccupa. Per la sua invadenza, per il cambiamento profondo che attraverso di essa si insinua nella nostra mentalità e nel nostro modo di vita. L’inglese della globalizzazione ci incalza, ci fa sentire inadeguati ai tempi moderni. Ma neppure l’inglese è più una lingua ben definita. Parlata da milioni di allofoni, tanto velocemente si trasforma che gli anglofoni stessi non la capiscono più. Non è raro negli incontri internazionali dove pure si parla inglese che qualche delegato di madrelingua chieda l’interpretazione in inglese. Perché l’inglese di molti partecipanti non è più inglese. E’ la lingua del guazzabuglio globalizzato, spesso un inglese regionale asiatico che però è parlato da milioni di persone. E qui non c’è errore che tenga : è il numero che dice quale lingua è giusta e quale è sbagliata. All’aeroporto di Zurigo ho recentemente assistito allo smarrimento di un signore inglese cui la guardia di frontiera tedesca chiedeva se portava un telefonino in tasca. «Have you got a handy ? » chiedeva il poliziotto. “A what?” replicava l’inglese senza capire. “A handy!” si spazientiva il tedesco. “Handy” è la parola che i tedeschi usano gergalmente per dire telefonino. Sono convinti che si tratti di un prestito inglese nella loro lingua. Invece è una parola che hanno inventato loro. In inglese corretto telefonino si dice “mobile”. Ecco un chiaro esempio di quel che chiamerei sfratto linguistico. Sono gli stranieri a inventare parole nelle lingue degli altri. Un altro divertente caso è la nostra Coca light, che a Londra non esiste. In inglese si chiama Diet Coke.
Ora è proprio in una lingua simile all’inglese della globalizzazione che Dante ha scritto il suo poema. Si può in fondo dire che la lingua della Commedia era nel 1300 l’inglese che univa linguisticamente l’Italia. Il fiorentino era il volgare più diffuso. Per la forza politica di Firenze, per la presenza di fiorentini influenti in tutta Italia, per la centralità della Toscana. Sono gli stessi ingredienti che oggi fanno potente l’inglese. Infatti, gli studiosi che hanno analizzato il poema dantesco vi hanno trovato dentro influenze e varianti d’ogni tipo. Dalle varietà diastratiche (allora e allotta) alle oscillazioni morfologiche (cada / caggia), dagli occidentalismi (lassare / lasciare) ai sicilianismi (uccidere / ancidere), poi i gallicismi (dispitto / dispetto; giuggiare / giudicare; donneare / amoreggiare) e le parole terminanti in –anza o l’uso di uomo come pronome impersonale. Non parliamo dei latinismi e degli arabismi come nuca nel senso di colonna vertebrale o come cenìt, punto del cielo sopra il capo, per noi zenit. Ma il più fecondo e potente arricchimento lessicale della lingua della Commedia viene proprio dall’inventiva di Dante stesso che conia parole come imparadisare (innalzarsi a gioie paradisiache), incinquarsi (ripetersi per cinque volte), insemprarsi (durare per sempre), appulcrare (abbellire), inmillarsi (moltiplicarsi per migliaia) dismalare (liberare dal male), indovarsi (trovar luogo). Dilibrarsi è liberarsi dall’equilibrio, Dirocciarsi è scendere da una roccia, trasmodarsi è oltrepassare ogni limite indiarsi è penetrare in Dio, inmiarsi, iluiarsi e inleiarsi è penetrare in me, in lui, in lei: parole che oggi tornerebbero utili nei più variegati costumi sessuali del nostro mondo, come anche intrearsi che significa congiungersi con un terzo.
E come non pensare anche, con un poco di malignità, che Dante abbia fatto un po’ il furbone giocando su questa polimorfia. Se una rima o un endecasillabo non gli venivano bene con la pura lingua fiorentina, aveva tutto l’agio di pescare nelle altre lingue del suo tempo la parola che gli serviva o addirittura di inventarne lui stesso. Basti pensare alle varianti verbali in –ie / -ia e in –ieno / -iano e alla forma del condizionale che oscilla fra varianti come satisfara e satisfia, agli allotropi veglio/vecchio o suora/sorocchia.
Scrive Ernesto Parodi: “I commentatori dei tempi andati parlavano volentieri degli arbitrii di Dante nell’uso delle parole, giacché, secondo loro, egli si sarebbe preso coi vocaboli strane libertà, alterandoli ora nella forma ora nel significato. Ma oggi non è più necessario difendere il poeta da questa taccia; poiché le sue licenze e i suoi cosiddetti arbitri sono propri di tutta la lingua letteraria del periodo delle origini, e anzi appaiono meno frequenti che negli altri poeti contemporanei: meno frequenti soprattutto che non dovremmo aspettarci da chi osò, con una lingua ancora inesperta, spingersi a così alto volo”.
A lungo Dante ha esitato sulla scelta della lingua in cui scrivere il suo poema. Se alla fine, al latino o al francoprovenzale ha preferito il volgare forse è perché si è accorto della maggiore versatilità di una lingua che in fondo non esisteva ancora, che non era ancora stata murata viva in una grammatica e nella quale poteva ancora intervenire con la sua invenzione personale. Umberto Eco, nel suo saggio « La ricerca della ligua perfetta nella cultura europea » esamina come l’idea della lingua universale fosse già presente in Dante. Il poeta aveva intuito che esistono degli universali linguistici soggiacenti alla formazione di ogni lingua naturale e con questa consapevolezza si avventurava a costruire da sé la lingua per il suo poema. Scrive il Poeta nel « De vulgari eloquentia » :
“Infatti chiunque è tanto stolto da credere il suo paese nativo il più bello che esista al mondo, costui preferisce anche, più di ogni altro, il proprio volgare, cioè la propria lingua materna e, per conseguenza, crede che sia stato proprio quello usato da Adamo. Ma io che ho per patria il mondo come i pesci l’acqua (…) io debbo soppesare il giudizio più con la ragione che con il sentimento.”
E ancora dice Adamo nel XXVI canto del Paradiso:
“La lingua ch’io parlai fu tutta spenta
innanzi che a l’ovra inconsummabile
fosse la gente di Nembròt attenta;
ché nullo effetto mai razïonabile,
per lo piacere uman che rinnovella
seguendo il cielo, sempre fu durabile.
Opera naturale e ch’uom favella;
ma così o così natura lascia
poi fare a voi secondo che v’abbella ».
Con questi versi Dante in fondo rappacifica l’umanità con lo strappo di Babele e scegliendo di scrivere il suo poema sacro in una lingua peritura ne riconosce la forza, l’universalità. In fin dei conti Dante ha fatto con il volgare del suo tempo quel che noi dovremmo fare con l’inglese di oggi. Prenderlo per le corna anziché subirlo, impararlo per impossessarcene, per fargli dire quello che abbiamo da dire, contaminarlo con il nostro pensiero e con la nostra visione del mondo. Insomma, seguire l’esempio della guardia di frontiera di Zurigo e non farsi scrupoli a inventare parole nuove in una lingua che non è la nostra, perché di fatto l’inglese oggi è anche nostro. E dell’inquinamento dell’italiano, del suo presunto imbastardimento non dobbiamo preoccuparci. Una lingua ha solo un modo per non morire mai : trasformarsi in un’altra.