Bruxelles – Al Summit sociale di Porto del 7 e dell’8 maggio non ci sarà nessun fronte comune tra i 27 Paesi membri dell’Unione Europea per dotare quest’ultima di maggiore autonomia nel campo delle politiche sociali. Lo si apprende dalle posizioni che alcuni Stati membri hanno assunto prima ancora dell’avvio del vertice informale, considerato come l’appuntamento più importante del semestre della presidenza di turno portoghese del Consiglio UE.
Alla Conferenza di alto livello di Porto i 27 governi dovranno definire l’agenda della politica sociale europea per il prossimo decennio, tenendo però a mente quanto stabilito nel 2017 al vertice sociale di Göteborg e i traguardi sanciti dal Piano d’Azione del Pilastro europeo dei diritti sociali presentato a marzo 2021. Ma se gli obiettivi per il 2030 sono chiari (raggiungere il 78 per cento dell’occupazione nell’UE, far partecipare almeno il 60 per cento degli adulti europei ad attività di formazione, ridurre di 15 milioni il numero di persone a rischio povertà), non lo sono altrettanto la ricetta e le modalità che dovrebbero realizzarli. Ed è sul rafforzamento delle competenze dell’Unione in questo campo che potrebbe crearsi un nuovo terreno di scontro tra le diverse visioni degli Stati membri.
L’ultimo affronto giunge da una dichiarazione informale firmata Austria, Bulgaria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Paesi Bassi e Svezia. In un non paper gli 11 Paesi sottolineano che il Pilastro dei diritti sociali e i suoi principi “contribuiscono a un mercato interno più integrato e più giusto” agendo “da bussola per politiche del lavoro e sociali efficaci”. Nel documento viene posta enfasi sugli obiettivi delle pari opportunità, dell’inclusione, della creazione di posti di lavoro di qualità e della piena realizzazione dell’uguaglianza di genere. In coro gli autori della dichiarazione comune affermano che in vista della ripresa economica e della realizzazione della transizione ecologica e della transizione digitale è necessario promuovere le competenze necessarie (di base e avanzate) per rendere i lavoratori europei veri artefici della loro carriera professionale e più inclini ad adattarsi alle difficoltà del futuro.
Nel testo i firmatari sottolineano però che l’implementazione delle politiche in questo ambito spetta agli Stati membri. Sono loro, dicono gli undici, “che hanno la responsabilità delle politiche sociali, di impiego, di istruzione e di formazione”, e le iniziative mirate dell’Unione Europea possono essere complementari a quelle nazionali, ma devono comunque rispettare la divisione delle competenze tra l’Unione, gli Stati membri e le parti sociali. Tutto questo nonostante gli obiettivi prestabiliti a Bruxelles “possono contribuire a promuovere la convergenza e il benessere” e malgrado l’attenzione dedicata al legame tra occupazione, competenze e povertà delineato dalla Commissione europea sia definita “una buona scelta”.
Secondo il quotidiano iberico El Pais Spagna e Belgio tuttavia avrebbero già approntato una controproposta che è stata notificata a tutte le capitali europee. Nella dichiarazione comune firmata dal primo ministro spagnolo Pedro Sánchez e dal capo del governo belga Alexander de Croo, c’è la richiesta di istituire un meccanismo di allerta simile a quello che si attiva per gli squilibri dei bilanci nazionali. Secondo Madrid e Bruxelles i 27 Stati membri dovrebbero essere sottoposti ogni anno alla valutazione delle loro politiche sociali ed eventualmente essere sottoposti sotto sorveglianza nel caso in cui non soddisfino eventuali indicatori relativi alla qualità dell’occupazione, alla disparità salariale tra uomo e donna e all’accessibilità dell’istruzione. Specifiche soglie dovrebbero riguardare la valutazioni delle prestazioni di assistenza a lungo termine, un settore particolarmente colpito dalla pandemia di COVID-19.