PREMESSA – A marzo del 2020 la pandemia costringe tutti a casa. È un’esperienza squilibrante. Colpito nel profondo, uno scrittore dai molti lavori in corso scopre da un giorno all’altro di non poterne proseguire più nessuno e sa, al contempo, che se non scrivesse impazzirebbe. Nasce così questo pugnello di racconti, spontanei come il sudore di una malattia; senza altra esigenza che la legittima difesa. Ora che lo squilibrio è diventato regola, provano a uscire dal nascondiglio. Un po’ alla volta, piano piano.
La filosofia della lavastoviglie
La filosofia della lavastoviglie s’interroga su cose di una tale complessità che non posso non includerle nel repertorio delle mie riflessioni. È una filosofia categorica e sublime, vicina a certi modi della musica: un tema, tante variazioni. Il tema è dato dalla sua forma: un parallelepipedo cavo con uno sportello sul davanti che permette la fuoriuscita di due cassetti-cestelli nei quali si dispongono le stoviglie sporche. Le variazioni sono gli stati d’animo con cui la svuoto una volta finito il ciclo. Non gli stati d’animo con cui via via, nell’arco della giornata, la riempio, ma quelli con cui, grazie a una sola operazione, la svuoto.
Riempirla è facile, non è filosofico, non suscita pensieri particolari e non fa riflettere. Attraverso i suoi vari passaggi non mi rende comprensibile qualche oscura legge universale. Chiama in causa solo la capacità di infilare cose di forme diverse in un dato spazio (sono le prime cose che s’insegnano ai bambini); attiene alla tecnica, quindi, al colpo d’occhio, e appena ci si prende confidenza neanche ci si accorge che la si sta riempiendo, lo si fa in automatico. Colazione? Tazze, i piattini e i cucchiaini. Pranzo? Piatti fondi e piani, mestoli, palette di legno e insalatiera, posate. Dopo cena l’operazione è più complessa perché intanto si è riempita e bisogna sfruttare al meglio lo spazio residuo.
Svuotare la lavastoviglie, invece, è filosofico. La vampa tiepida che fuoriesce quando apro lo sportello è un po’ come se Aristotele o Platone (ma anche qualche presocratico) mi alitassero in faccia. Non mi stanno dicendo niente, non parlano, semplicemente espirano a un centimetro dal mio viso il loro incomprensibile fiato greco-antico, umido e pulito di conoscenza: un fiato mondo. E qui comincia l’aspetto intrigante, perché in quel fiato, io, ci sento odori che invece riconosco: il sale delle olive e della ricotta secca, la macchia infoltita dal salmastro, la terra riarsa sbriciolata dalla zappa, il senso delle radici visibile anche nelle foglie più alte, la chiglia delle barche che sembrano sospese per quanto è trasparente il mare, la mammella della capra che mungo. Da tanti segni, intuisco che svuotare la lavastoviglie mi riguarda nel profondo. Implica la storia, e quella particolare sensibilità che attraverso esperienze altrui è entrata nel mio bagaglio ancestrale. Io sono, in parte, quanti mi hanno preceduto, e il fiato degli antichi filosofi me lo ricorda anche quando apro una lavastoviglie alla fine del ciclo; perché loro sono l’antichità ignota che, a sfiorarla, mi fa venire i brividi.
La riflessione profonda connessa alla lavastoviglie prende il via dallo sconforto che provo davanti alla visione d’insieme una volta aperto il portello, e prosegue con la certezza che, nel ripetersi dei gesti necessari a svuotarla, ci sia una inaccettabilità alla quale devo dare ascolto e porre rimedio. Soprattutto ora che la clausura imposta dalla pandemia rende la vita quotidiana particolarmente sensibile alle aporie di molte abitudini. Appena il pensiero si mette all’opera, capisco subito che non ha senso, non ha assolutamente senso creare un ordine così ammirevole ed esemplare delle cose pulite se poi, anziché lasciarle lì, visibili e scintillanti come un’opera d’arte, disposte secondo la loro perfezione euclidea, sono pronto ad alterarne il disegno solo per mettere a posto ogni singolo oggetto; consapevole che la forza tellurica di quella evidente contraddizione, subito dopo mi farà sembrare accettabile la prospettiva di cominciare a sporcarle di nuovo, le stoviglie, e mi renderà capace di accettare che il solo sbocco di quel gesto insano sarà tornare, attraverso gli stessi meccanismi, alla lenta costruzione di una nuova bellezza ottenuta la quale, a lavaggio ultimato, niente altro conseguirà se non il ripetere daccapo una ulteriore variazione del disastro. Un tema, si diceva, e le sue variazioni. Se non è musica, questa!
La filosofia della lavastoviglie insegna che, se voglio preservare la bellezza e seguire la strada che a suo modo indica, devo osare interrompere il continuo riempire, lavare e svuotare, e mettermi in contemplazione dell’immagine che consegue all’apertura dello sportello una volta finito il lavaggio. Devo sedermi (cosa che faccio) davanti a quell’ordine intonso e perfettamente immobile (salvo qualche rada goccia di vapore che smotta lungo il dorso di un piatto) e, grazie alla sua armonia, lasciarmi guidare verso dove non sono mai stato. È probabile che io possa incontrare un qualche smarrimento, all’inizio, come anche la spiacevole sensazione di stare perdendo tempo, suggerita en passant da Marisa che potrebbe non ritenere sensata quella mia particolare immobilità; è probabile che verrei distolto da voci fuori campo che parlano lingue o emettono borborigmi inadatti al mio concentrarmi. Il programma prevede di non dare loro importanza; se dovessero farsi insistenti, ricorderei a me stesso che la determinazione a raggiungere la meta, secondo la filosofia della lavastoviglie, sarebbe più forte di qualunque accidente sensoriale. Smonterei le parole dei petulanti che dovessero provare a distogliermi e le trasformerei in suoni sempre più sordi. Se insistessero, le disarticolerei. Se insistessero ancora, disarticolerei i petulanti. Caccerei da me, come falsi obiettori, tutti quei pensieri al soldo della convenienza spicciola e del buonsenso; in realtà vogliono solo che io continui a essere funzione di questo sofisticato automa le cui parti, scollegate fra loro (e io vi sono compreso), concorrono al suo gesticolante funzionamento in surplace che non lo porta (e non mi porta) da nessuna parte. Penso davvero che un’entità più grande di me, ma per nulla riferibile al divino (quindi un’ipertrofia dell’umano, o meglio, dell’umano volere), per suo esclusivo divertimento abbia costruito questa macchina del niente di cui sono parte attiva ogni volta che svuoto una lavastoviglie e sistemo le cose pulite al loro posto al solo scopo di sporcarle di nuovo e rimetterle in quella insaziabile cavità mangia-sporco in un ordine appena un po’ diverso dal precedente, e che l’unica aspettativa sulla quale posso contare è la certezza di trovarle, all’apertura dello sportello, in un ordine inevitabilmente diverso da quello della volta prima.
Rifiuto il senso di novità che può derivarmi da questa constatazione. Nel ripetersi in surplace di una tale abitudine, capace solo di minimi spostamenti in un interno altrimenti immobile, non esiste niente di nuovo. Se la seguo in modo pedissequo, il mio filosofare resta fermo. O peggio, va all’indietro. Come capitò al vecchio corridore kirghiso di cui narra la leggenda – ora espunta, per dubbia provenienza, dal corpus originale del Libro degli Opposti – ma che cito comunque perché si presta a fare da esempio a quanto sconveniente sia andare all’indietro. Il vecchio corridore kirghiso, infatti, impegnato in una gara di corsa a piedi, aveva creduto di essere arrivato (e forse anche di aver vinto) solo perché, alzati gli occhi al cielo dopo la confusione conseguita al colpo di pistola sparato dallo starter, aveva letto al contrario la parola PARTENZA scritta sullo striscione. AZNETRAP forse vuol dire arrivo, aveva convenuto tra sé e sé con rocciosa consequenzialità, e si era messo a esultare come solo i vecchi kirghisi fanno, con un braccio verso l’alto e l’altro verso il basso perché cielo e terra vanno ringraziati insieme. In realtà si era spostato solo di pochi metri, ma all’indietro. E, indietro, è un luogo dove non conviene sostare, perché lì tutto sembra diverso e contrario da come invece risulta essere per quelli che abitano – felici o infelici, poco importa – l’ampio territorio del davanti.
“Che fai seduto davanti alla lavastoviglie?” mi domanda Marisa, armata di swiffer e spazzolone, col tono di chi non ha neanche il tempo di ascoltare la risposta. E infatti sparisce. Capisco solo che è impegnata nella complessa procedura delle pulizie e questo vuol dire che tutto il suo interesse, per qualche ora, ruoterà attorno a una invisibile ma concreta competizione con la colf, la cui presenza, in via precauzionale, è stata sospesa fino a tempi migliori. Percepirà il suo compenso come se venisse, ma al momento preferiamo fare da noi.
Non mi piace essere distolto così bruscamente dal mio intimo filosofare. Primo, non si disturba chi si stava dedicando alla nobile arte della riflessione, e se proprio è inevitabile, ci si curi almeno di farlo con delicatezza. Secondo, benché irritato, capisco che Marisa non dovrebbe dedicarsi in modo esclusivo a certe attività; le avremmo potute condividere, previo accordo, se solo lei, con le pulizie della casa, non stesse affrontando un’oscura competizione, verosimilmente di bassa lega, nella quale io non ho spazio, né vorrei averlo.
Questo, va da sé, non glielo dirò mai. Anzi, per essere ancora più sicuro di non scatenare il suo risentimento, qualora sospettasse qualcosa in proposito negherei persino di averlo mai sfiorato, un pensiero del genere. Potendo, lo cancellerei anche, non fosse che mai come stavolta risulta vero alla lettera che scripta manent. Ho provato infatti col tasto delete, ma niente, e nemmeno con “control X”, dopo averle evidenziate, sono riuscito a estirpare dal file le parole della mia infelice clausola; non intendono andarsene, vogliono stare lì, eroiche a modo loro, come un icastico nero su bianco, a prefigurare il rischio di futuri inciampi se per caso Marisa le leggesse. D’altronde, non è interessata alla mia scrittura in questo sbandamento pandemico che mi spinge verso forme che lei amabilmente definisce astruse. A lei piace leggere Carrère e Houellebecq, per intenderci, per cui non dovrei preoccuparmi.
“Lo vuoi un caffè?” le chiedo a voce abbastanza alta da vincere l’aspirapolvere. Chissà se avrà colto il tono riparatore? E in caso affermativo, spero che non s’insospettisca come fanno, in certi film, quelle mogli che, dal marito solitamente distratto, ricevono fiori senza una ragione particolare. Per il momento, comunque, non me la sento di svuotare la lavastoviglie. Intanto mi metto a cucinare. Chissà che guardandola di tanto in tanto, così perfetta e intoccabile, non m’ispiri una via d’uscita meno critica e più domestica di quella imboccata dalla mia lesa sensibilità?