Bruxelles – Sola, ferita in quanto donna e in quanto presidente della Commissione Europea. Ursula von der Leyen torna a parlare dell’incidente di protocollo subìto ad Ankara lo scorso sei aprile quando si è vista negare una sedia accanto al presidente del Consiglio europeo, Charles Michel, e al presidente turco, Recep Tayiip Erdogan, e costretta a sedersi su un divano in disparte, da cui il nome Sofagate. “Sono stata la prima presidente della Commissione europea e così pensavo di essere trattata in Turchia due settimane fa: da presidente della Commissione europea. Ma così non è stato”, afferma con durezza von der Leyen di fronte al Parlamento europeo, aprendo i lavori della plenaria (26-29 aprile). L’Aula avvia un dibattito sui rapporti dell’UE con la Turchia e sulle conclusioni del Consiglio europeo di marzo, ma è la questione “Sofagate” a tenere banco.
“Mi sono sentita ferita, mi sono sentita sola, come donna e come europea”, ha affermato senza mezzi termini. “Non riesco a trovare giustificazioni del trattamento nei Trattati e quindi devo concludere che quello che è successo è avvenuto perché sono una donna”. Parole che arrivano a distanza di oltre due settimane dall’accaduto, ma che era necessario arrivassero perché nessuno ai “piani alti” di Bruxelles aveva confermato l’impressione che lo sgarbo istituzionale di Erdogan fosse volutamente fatto contro una donna. E che se ci fosse stato un uomo al posto di von der Leyen, probabilmente non ci sarebbe stata alcuna poltrona mancante. L’incidente “non riguarda il protocollo o la disposizione delle sedie, riguarda i valori e dimostra quanto ancora c’è da fare perché le donne siano trattate su un piano di parità ovunque”, ha proseguito. A qualcosa quindi dovrà servire quanto successo. “La mia visita in Turchia ha mostrato fino a che punto dobbiamo ancora spingerci prima che le donne siano trattate alla pari” e il Sofagate ha fatto notizia perché a far notizia era una donna a ricoprire una delle più alte cariche tra le Istituzioni dell’UE. Ma ci sono tante altre storie, tante altre poltrone negate “che passano inosservate e dobbiamo assicurarci che anche queste storie vengano raccontate”, ha ricordato la tedesca. L’attenzione, però, non può essere solo alla forma, ma anche ai contenuti della visita in Turchia che serviva in primo luogo a rinforzare un dialogo che per l’UE è indispensabile.
Durante la visita a Erdogan, la presidente ha espresso la preoccupazione dell’UE per il ritiro di uno dei Paesi fondatori del Consiglio d’Europa dalla Convenzione di Instanbul, contro la violenza sulle donne. “È il primo strumento vincolante a livello internazionale ad adottare un approccio ampio alla lotta alla violenza contro donne e bambini. La Convenzione proibisce la violenza psicologica, le molestie sessuali e lo stalking”, ha ricordato. Ma prima di muovere critiche agli altri e fini a se stesse, per essere credibile l’Unione Europea dovrebbe agire anche in casa propria. E di questo sembra consapevole la presidente della Commissione. La Convenzione è ratificata da 21 Stati membri su 27 e la Polonia minaccia di uscirne, ma anche la stessa Unione Europea come entità politica ancora non ha aderito. Come spesso accade a Bruxelles, lo scoglio da superare è al Consiglio dell’Ue: la presidente si è detta decisa entro la fine dell’anno a presentare misure alternative: ovvero a presentare “una legislazione per prevenire e combattere la violenza contro donne e bambini – online e offline”, per ovviare l’incapacità degli Stati membri di prendere una decisione.
Prima dell’intervento di von der Leyen, è intervenuto Michel che ha espresso di nuovo rammarico per quanto accaduto ad Ankara e verso “tutte le donne che complessivamente si sono sentite offese” per la sua inazione. “In quell’istante avevo deciso di non reagire ulteriormente per non creare un incidente politico più grave che avrebbe potuto rovinare mesi di preparativi e sforzi politici e diplomatici”, si è giustificato nuovamente presidente del Consiglio europeo, consapevole delle critiche di molti “che avrebbero voluto mi comportassi in maniera diversa”. Cerca di mettere una pezza su una frattura istituzionale latente con la presidente della Commissione, esprimendo forte sostegno alla battaglia femminista. La debolezza – insiste Michel – è di natura protocollare. “Le nostre squadre non hanno potuto avere accesso alla sala prima della riunione con Erdogan. Insieme alla Commissione ci siamo impegnati perché non accada più in futuro”, ha concluso. Ha ricordato che i rapporti con Ankara sono stati da sempre molto complicati (cita 11 discussioni sull’argomento da quando è diventato capo del Consiglio Europeo) per cui la volontà di proseguire il dialogo senza intoppi ha di fatto prevalso nell’idea di Michel.
Sostegno alla presidente della Commissione Europea da parte dell’Emiciclo, che fino a qualche settimana fa chiedeva addirittura la testa di Michel. Il Partito popolare europeo “riconosce che si sia trattato di una situazione difficile”, afferma il capogruppo Manfred Weber, sottolineando che “quanto successo ad Ankara non si può e non si deve ripetere, perché non esistono presidenti di prima o di seconda classe”.
Meno cauta Iratxe Garcia Perez, capogruppo dei Socialisti e Democratici, secondo cui un dibattito su quanto accaduto ad Ankara avrebbe meritato uno spazio a sé, e non circoscritto a uno dei punti in agenda su un generico confronto sul Consiglio Europeo di marzo. Di fatto si è trattato di “un’immagine imbarazzante per l’Unione Europea”, accusa la socialista spagnola perché in quanto sperimentato da von der Leyen c’è una condizione che “molte di noi hanno sperimentato almeno una volta nella loro vita”: la difficoltà di rompere i soffitti di cristallo, di risiedere in posti di potere e soprattutto di essere riconosciute come tali. Comprensiva sul fatto che Michel “non si sia reso conto delle conseguenze” di quella non-azione ma è questo il nodo centrale del dibattito: non bastano le dichiarazioni ma servono le azioni. Serve “impegno reale per la parità di genere” e in concreto serve sbloccare in Consiglio anche la direttiva sulle donne nei consigli di amministrazione (Women on board, bloccata da anni dagli Stati) e – come menzionato dal von der Leyen – “l’adesione dell’UE alla Convenzione di Instabul”, ricorda la capogruppo.
“Non mi aspetto molto dal presidente Erdogan: si chiama fuori dalla Convenzione di Instanbul e non fa nulla per proteggere le donne. Ma dal presidente del Consiglio europeo mi sarei aspettata qualcosa diverso. Se tratti la presidente della Commissione così, nessuna altra donna può aspettarsi un trattamento diverso”. Parole ancora più dure quelle che la co-presidente dei Verdi, Ska Keller, ha rivolto in Aula al presidente Michel. L’UE può parlare con una voce forte sulla scena internazionale “solo se parliamo in modo unitario”, per questo “cercano di dividerci e non possiamo fare il loro gioco”. Keller tocca il nodo dolente: Ankara serve all’Unione europea perché accoglie i rifugiati provenienti per lo più dalla Siria e “fa da tappo” al loro ingresso nell’UE, ovviamente dietro sostegno finanziario da parte di Bruxelles. “Non avremmo mai dovuto affidare questo compito a Erdogan, disastro geopolitico”, denuncia la deputata ambientalista. L’invito a non far prevalere gli interessi economici sui diritti fondamentali accumuna la maggior parte dell’Emiciclo.
“Abbandonare la strada dei compromessi impossibili e imboccare quella del buon senso”, esorta il presidente del gruppo di Identità e Democrazia (di cui la Lega fa parte all’Europarlamento), Marco Zanni, parlando della più “brutta pagina della storia diplomatica dell’Unione europea”. Esprime anche lui solidarietà alla presidente von der Leyen per una scena “che ha confermato quanto già sapevamo su Erdogan e regalato al mondo l’immagine di un’UE paralizzata, incapace di agire tempestivamente quando le circostanze lo richiedono”.
A conclusione del dibattito in plenaria, la presidente ha ringraziato “il Parlamento per la solidarietà”, aggiungendo che continuerà a battersi “per la parità di condizioni di tutti”. Affinché il tanto acclamato motto di Bruxelles ‘Uniti nella diversità’ possa diventare una realtà, più che un semplice slogan politico.