PREMESSA – A marzo del 2020 la pandemia costringe tutti a casa. È un’esperienza squilibrante. Colpito nel profondo, uno scrittore dai molti lavori in corso scopre da un giorno all’altro di non poterne proseguire più nessuno e sa, al contempo, che se non scrivesse impazzirebbe. Nasce così questo pugnello di racconti, spontanei come il sudore di una malattia; senza altra esigenza che la legittima difesa. Ora che lo squilibrio è diventato regola, provano a uscire dal nascondiglio. Un po’ alla volta, piano piano.
Il cornetto
Franziska è partita. Diversamente da altre volte, coi saluti scambiati sulla porta di casa, l’ho accompagnata all’aeroporto e adesso che non c’è più avverto una specie di ronzio. Non viene da fuori, ce l’ho in testa, ed esige un caffè.
Entrando nel bar, ho visto un avventore che ha morso il cornetto con troppa incuria e buona parte della crosticina più croccante è caduta a terra. Non lo sa che le crosticine del cornetto devi tenerle ferme oltre la presa dei denti, se non vuoi che si rompano e cadano? Quello, però, mica s’è dispiaciuto della perdita, non l’ha degnata di uno sguardo, nessun rammarico, come se gli fosse del tutto indifferente.
Di sicuro, rispetto al cibo non è come me; forse in vita sua ha mangiato così tanto da stancarsi. Beato lui che non sa cosa vuol dire centellinare anche le briciole, e non immagina quanto possa far male la distanza tra la fame e la possibilità di soddisfarla. Io l’ho conosciuta così bene, quella distanza, che ancora adesso mangerei tutto quanto resta nei piatti degli altri. E dove posso, lo faccio. Mi domando con che cuore lasciano che si sprechi il cibo.
Ricordo quando lavoravo in un ristorantone francese di Londra. Avevo venticinque anni, e quel lavoro l’avevo trovato battendo a tappeto i locali di Soho. C’era stata a mangiare anche la Regina Elisabetta, lì, e a una parete dell’ingresso erano appese le foto dell’evento, regalmente incorniciate. Per noi che stavamo in cucina, quello con le foto e i tavoli era il mondo di sopra: reception, camerieri in livrea, arredi raffinati, dialoghi in tono di sussurro, portate prestigiose. Noi, invece – il cuoco turco, l’aiuto-cuoco francese, il lavapiatti pakistano e io, che saltavo da un ruolo all’altro – stavamo al piano interrato. Mi avevano assunto con l’immeritata qualifica di aiuto-cuoco solo perché ero giovane e bianco, parlavo il francese e sembravo per bene. Me l’avevano messa come una fortuna, poter lavorare lì, il che mi aveva aiutato a digerire i soli sette pounds a settimana per tredici ore di lavoro al giorno: il turno della mattina e dopo due ore di riposo, stravaccato attorno alla fontana di Piccadilly Circus, quello della sera fino a mezzanotte. Correvo come un matto pur di non mancare l’ultimo underground per Ladbroke Grove dove la stanza mi costava cinque pounds a settimana. È vero che al lavoro mi passavano colazione, pranzo e cena, ma resta che al dunque guadagnavo appena per i trasporti e le sigarette. E che problema poteva mai essere a quell’età? Ero un giovane artista e vivevo a Londra, vuoi mettere?
Malgrado i tre pasti quotidiani fossero abbondanti, a me non bastavano. Così, quando il portavivande scendeva dal piano zero in cucina colmo degli avanzi dei clienti – gente che non aveva mica fame, al più, appetito, e quindi non mangiava, che è da cafoni, ma assaggiava – prima di scaricare tutto quel ben di dio nella spazzatura, io mi succhiavo un’ostrica, svuotavo un gigantesco escargot garni, azzannavo pezzi di filet aux fines herbes, spazzolavo porzioni cospicue di mont blanc, trincavo Château-neuf du Pape d’annata; il tutto nell’ordine giusto, come se fossi servito da invisibili camerieri.
Ero magro e robusto, allora, e non mi faceva paura niente. Avevo cominciato il lavoro con la febbre a trentotto, tosse, dolore alle giunture. Mica potevo mettermi in malattia il primo giorno; per cui, forza e coraggio. Avevo resistito. Alla fine, qualunque acciacco avessi avuto era passato facendo avanti e indietro fra i quaranta gradi della cucina e i tre gradi della grande stanza-frigorifero dove entravo spesso per le più diverse ragioni, e sempre mi ficcavo in bocca qualcosa: le fragole migliori, pezzi di Roquefort, palettate di gelato, crema di marroni. Ero una specie di cavalletta con l’acquolina in bocca e il radar continuamente attivo. Mi sarei potuto beccare la polmonite, a forza di entrare sudato nella stanza-frigo, e invece ero guarito. Lì avevo compreso quanto necessario fosse andargli incontro, al male, affrontarlo faccia a faccia e a muso duro, se serve. Ma a quel tempo mica era come adesso. A quel tempo la malattia era un piccolo fatto privato col quale non era difficile venire a patti, ce l’avevo io e magari qualcun altro, chissà, e nessuno ne sapeva niente; oppure, se anche qualcuno l’avesse saputo, la cosa lo avrebbe lasciato nella più totale indifferenza. Mica come oggi che con quei sintomi starei in quarantena in attesa di un tampone, perché allora non c’era la pandemia, questa bestia nuova nel cui invisibile mare nuoto ormai da un tempo incalcolabile, costretto a vedere le cose attraverso la sua infida ottica.
Al ristorantone di Soho avevo resistito giusto due mesi, poi ero scappato quando l’accoglienza di Camilla – grata per averle dato, benché sconosciuta, l’ultimo cartoccio di fish and chips domenicale – mi aveva permesso di lasciare la camera a Ladbroke Grove e di sistemarmi da lei, a Fulham. Quell’autunno, piovigginoso e solo a tratti di vento azzurro, lo ricordo come un periodo di grande fermento. Lei studiava economia e sapeva, di arte, quanto io sapevo di Scienza delle finanze; eppure, malgrado gli interessi così inconciliabili, tutta quella distanza aveva le sue attrattive; come se renderne così vicini gli attori avesse costretto sia lei che me a rivelare di continuo un po’ della nostra segreta diversità. Avevo visitato mostre, gallerie, musei. Su tutto era emerso, fulminante, Francis Bacon, una continua perturbazione di forze centrifughe e centripete, ondate di energia pura da fronteggiare. Vedevi le sue opere, e quel conflitto tra forze opposte te lo portavi dentro a lungo, vivo e attivo come una preziosa dinamo.
Camilla sarebbe tornata a Innsbruck i primi di dicembre e anche per me era tempo di rientrare. Avevo fatto il biglietto per Roma il 12 mattina ma poi il treno era rimasto a Dover molto più a lungo del solito perché la Manica non era navigabile. Infine, placatasi la tempesta, il primo traghetto s’era potuto muovere verso le 22 e la traversata, una specie di buia, lenta e implacabile montagna russa, aveva obbligato tutti a vomitare anche il cibo dei giorni futuri. Dagli scricchiolii sembrava che lo scafo prima o poi si sarebbe spaccato in due. Tutti berciavano e inveivano in lingue incomprensibili e gutturali; una specie di rito selvaggio, disperato, grazie al quale sconosciuti di nazioni ed età diverse, accomunati da un’identica malasorte, improvvisavano il modo migliore per affrontare insieme la fine ormai vicina.
Imprevedibilmente, invece, eravamo arrivati a Calais sani e salvi; con qualche arroganza in meno e un po’ di notizie in più sul senso della vita. La buia corsa del treno attraverso l’Europa s’era conclusa a Milano la mattina del 13 dicembre. Appena sceso, avevo notato nell’aria come una gravità sconosciuta, qualcosa di molto più funereo del cielo basso e grigio che avvolgeva i muti andirivieni dei passeggeri alla Stazione Centrale. Per un po’ avevo pensato che dipendesse dai postumi della traversata. Mi sbagliavo. Alla coincidenza per Roma mancavano un paio d’ore, così avevo comprato un quotidiano. Il titolo, a tutta pagina e a caratteri di scatola, mi era esploso nella testa come un’eco in ritardo dell’insopportabile rumore con cui, il giorno prima, a Milano, qualcuno aveva seminato la morte in una banca del centro.
Prima di allora, quando l’improvviso incarognirsi della vita sociale inaugurato da quelle bombe non era neanche immaginabile, tutto accadeva in modi abbastanza semplici e lievi, quasi che la vita fosse una nave guidata da un nocchiero con la mia identica incontenibile eccitazione. In quel clima ancora benedetto, tre anni prima di Londra, un giorno in cui i progetti artistici mi avevano sopraffatto, avevo deciso di tentare l’avventura a Parigi. Fino a Milano avevo guidato una Giulia Alfa Romeo che un tizio di Roma mi aveva chiesto di consegnare a certi suoi amici a Lambrate. Non avevo mai spinto una macchina a 180 all’ora. Pazzesco, la strada diventava subito stretta, tutto quello che sembrava lontanissimo arrivava in un attimo. Era come sperimentare un diverso scorrere del tempo.
Dopo la consegna, m’ero fatto portare, da quello della Giulia, fino a un viale di periferia buono per andare verso il nord in autostop. Ricordo che nell’attesa avevo filato intorno alla possibilità che mi avessero usato per fare qualche traffico, magari di droga. A pensarci bene, mittente e destinatario della Giulia, in realtà, potevano avere la faccia da trafficanti di droga. Anche se mi sembrava un po’ azzardato credere che delle facce corrispondessero a determinate occupazioni. Anzi, ero dell’idea contraria; ovvero, che per fare il trafficante di droga occorresse disporre della più insospettabile delle facce.
Alla fine del mio rimuginare, durante il quale non m’ero stancato un attimo di smuovere il pollice, avevo preso un passaggio in una Triumph spider decappottata da un tipo diretto a Losanna. Era di strada. Strapazzato dal vento della corsa, avevamo scambiato qualche chiacchiera fin dopo Aosta. Poi, in silenzio, era cominciato il lungo serpente per il passo del Gran San Bernardo. Il tipo aveva fretta, non era chiaro se per lavoro o per incontrare una. Buona parte della salita avevamo dovuto adattarci a una specie di processione dietro una fila esasperante di camion lumaca. Quello, dalla fretta smadonnava e smoccolava come stesse inventando un nuovo calendario dell’ira. Via via che procedevamo l’aria diventava sempre più fredda; impensabile che si fermasse ad abbassare la capote. Dovevo resistere. Sulla sommità del passo, i camion avevano parcheggiato nello spazio destinato alle pratiche doganali. Dopo il controllo dei documenti il tipo, con la strada finalmente libera, s’era lanciato verso la discesa deciso a recuperare tutto il tempo perso. I tornanti si succedevano ai tornanti e la strada, priva di guard-rail, scorreva come un susseguirsi di minacciosi burroni. Nella foga della guida, per tre volte un testa-coda ci aveva portato fin sull’orlo del baratro. Non volevo morire a causa di un coglione anonimo, però quello era invasato, doveva recuperare e non mi avrebbe certo dato ascolto, se avessi chiesto di andare più piano; e poi ero così attento a tenermi con le mani a qualche appiglio che mi sembrava già un successo non essere sbalzato dall’abitacolo a ogni dérapage. Raggiunto il fondo valle, avevo accumulato una tale furia nei confronti di quel pazzo che, arrivati a Martigny, gli chiesi di lasciarmi alla stazione dove, anche se a malincuore per le mie risicate finanze, avevo deciso di prendere il treno per Parigi.
Ecco come vivevo, allora. Stretto fra un passato dal quale non volevo farmi orientare e un futuro che poteva essere solo quello del giorno per giorno, alla ventura. Se avessi voluto viaggiare, infatti, prima o poi un passaggio lo avrei rimediato, e di lavoretti, ovunque andassi, ne trovavo quanti ne volevo, e con tutte quelle possibilità anche uno come me, un domicilio alla buona se lo sarebbe potuto permettere. In quegli anni, la procedura per trovare casa non era complicata, almeno a Roma. Bastava scegliere una zona tra quelle accessibili, chiedere informazioni a qualche negoziante su eventuali case in affitto e aspettare. Dopo di che, entrato in contatto col proprietario e stabilito il canone mensile, si firmava una carta in duplice copia e da lì era tutto un darsi da fare per abbellire il nido. In economia, naturalmente, improvvisandosi imbianchini, elettricisti, falegnami; e ricorrendo a tutte le astuzie del mestiere. Se il bianco Meudon, per esempio, lo compravi allo smorzo, costava due lire; per renderlo perfetto, dopo averlo sciolto in acqua ci aggiungevi rosso d’uovo e latte; a garanzia che, una volta asciutto, non avrebbe spolverato.
Era andata esattamente così per il mio quinto piano senza ascensore e senza riscaldamento di via Luciano Manara, a Trastevere. Come letto, un materasso matrimoniale sul pavimento; i libri, allineati su assi di legno sostenute da mattoni. Un fornelletto a gas, un po’ di piatti e pentole. Quanto a tavolo e sedie per la cucina, li avevo comprati dal rigattiere di ponte Sisto che, se non nasava tracce di antiquariato, la roba quasi te la regalava pur di fare spazio.
In compenso, alle pareti, campeggiavano i grandi quadri della mia arte. Somigliava a una specie di museo, o di galleria, la casa, e quando ci portavo qualcuna, le concedevo sempre una visita ai miei capolavori. Fortuna delle fortune, a volte piacevano così tanto che quando, dopo, andavamo a letto avvertivo la presenza di una specie di pathos ulteriore, da parte di lei, tutto nutrito di un sentimento a metà fra l’ammirazione disinteressata e la possibilità, molto eccitante, di poter fare l’amore con un futuro artista di successo.
Perché, dunque, se avevo la vocazione artistica, spaccarmi la testa con lavori ingombranti e pervasivi purché duraturi? Qualunque carriera professionale o impiegatizia si presentasse all’orizzonte, mi pareva un praticantato verso la morte prematura, perché già allora, per me, valeva la regola che “oggi, ci sono e domani, chissà”. A forza di ragionare così, ho vissuto una imprevedibile vita da matti. Alla fine (i settantasei anni possono fregiarsi di questo termine) non ho avuto il minimo successo artistico, non almeno per come lo intendevo nei furori giovanili, salvo campare delle mie opere grazie a mercanti più incasinati di me che però, prima o poi, mi hanno sempre svuotato lo studio; il che ha voluto dire che l’assegno per l’indispensabile non è mai venuto meno.
Durante decenni sconvolgenti come quelli a cavallo del nuovo secolo, ho visto nascere tutti i fenomeni che hanno sommosso il mercato dell’arte con le loro mirabolanti installazioni copernicane. Leggevo dei prezzi incredibili che riuscivano a battere a certe aste e dentro di me sapevo sempre meglio che, da Beyus in poi, quasi tutti erano stati solo delle meteore da illusionista; o, anche, bolle di sapone incredibilmente durevoli. Tanti niente, insomma, gonfi e fragili, le sottili superfici variegate di cangianti colori perlacei; eppure, abili, grazie alla grande macchina di cui erano il carburante, a produrre ricchezze vertiginose, come dei veri “scoreggiatori di perle”, a dirla con l’ironia del primo Lacan.
In compenso ho amato e sono stato amato più di quello che potevo aspettarmi, allorché credevo che il meglio della vita coincidesse con quante più ragazze riuscivo a portarmi in un letto via via evoluto, dal primo materasso matrimoniale sul pavimento di via Luciano Manara, verso soluzioni che includevano, oltre al riscaldamento e l’ascensore, lenzuola e coperte all’altezza, quanto meno, di una sostanziale dignità. Ho avuto la fortuna di due genitori non assillati dal demone della sicurezza. Essi stessi, una sorta di miracolosa combinazione di opposti capaci di ottenere tanto, sacrificando ben poco delle loro irrefrenabili indoli. Tra cinema e teatro, avevano messo i loro nomi sotto due “attori non protagonisti” di grande livello e lunga carriera, corrosi quanto bastava dalla diffusa prassi del “genio e sregolatezza” ma non tanto da non godere dei privilegi riservati a chiunque fosse riuscito ad arrivare sull’orlo del precipizio senza però finirci dentro. Un po’ come era successo a me quella volta in cui avevo rischiato di crepare sui tornanti del Gran San Bernardo per un cretino in Triumph Spider e col fuoco al culo.
A differenza di prima – quando cambiavo branco quasi tutti i giorni, perché inventarmi la vita con persone ogni volta diverse era più piacevole del disagio di stare sempre con le stesse – ora sono attratto dalla solitudine, la sento come un vaso prezioso che a volte (inter)rompo per il solo piacere di riuscire ad aggiustarlo con perizia; quasi a dimostrare che la scelta di non fermarmi in una qualsivoglia aggregazione di tipo familiare non mi ha spinto verso nessun triste finale di partita, giacché grazie al deserto in cui vivo so accogliere mondi talmente complicati che, se solo li immaginassi vòlti a più durevoli unioni, dovrei rifiutarli subito, e così facendo li perderei. Invece, grazie alla mia altalena tra vuoto e pieno sulla quale dondolo con grande scioltezza, seppure un po’ stancamente, qualche essere umano a forma di donna ancora entra di tanto in tanto nella mia vita senza per questo, giovani o anziane che siano, creare nulla più di un sornione bastarsi tra complici; soprattutto coinvolti, entrambi, in dialoghi talmente asciugati e ridotti all’osso da rendere peculiare, per il benessere comune, anche la sola capacità di tacere assieme.
Franziska è appena partita e io l’ho voluta accompagnare all’aeroporto. In realtà si chiama Ludovica ma a me è piaciuto fin da subito cambiarle nome, e così ho trovato questo per ragioni che ora non ricordo. Dovrebbe esserci di mezzo qualche lontana lettura, un personaggio di romanzo reso famoso dall’ammirazione dei lettori. O forse solo una canzone, o l’anagramma di qualcos’altro, non so. Però se la chiamo Franziska, lei mi sembra più vera, più amabile. Ha due figli grandi che non le perdonano la frequentazione del vecchio spiantato che sono. Io non le dico nulla che vada contro i figli, e neanche a favore. Se capita di entrare in discorso, la invito a essere paziente, a comprendere, a pensare che possa esserci qualche buona intenzione nel loro osteggiarla. Non arrivo mai a dirle “lo fanno per te” solo perché non sarebbe vero.
Franziska è partita, e né lei né io sappiamo quando e se tornerà, ma siamo entrambi certi che durante questo tempo non ci aspetteremo telefonate o lettere o qualsivoglia altro segnale di contatto. Da bravi complici, continueremo a praticare il silenzio come fosse un’arte da sostenere coi dovuti allenamenti, e qualora riuscissimo a mantenere fede ai propositi, nessuno dei due saprà mai se la voce per infrangerlo, il silenzio, è trattenuta dalle nostre volontà di ferro o non invece dalla regina dell’involontario, quella che Pavese, nelle ultime note del diario prima del suicidio definisce “l’inquieta angosciosa, che sorride da sola”.
Ho ordinato caffè e cornetto e ho chiesto un piattino al barista; così, se nel mangiare mi dovessero cadere pezzi di crosticina, saprei raccoglierli e non andrebbero sprecati. Sono la parte più buona; da matti, pensare di perderne anche qualche briciola. Che poi, una volta preso posto al tavolo, scelto a caso fra i tanti vuoti, io abbia provato a mordere il cornetto senza neanche togliermi la mascherina la dice lunga sulla mia inguaribile distrazione. Se l’episodio non finisce nel dimenticatoio, lo racconterò a Franziska, non appena ci sentiremo. Sono sicuro che la farà sorridere.