Il presidente turco Racep Tayyip Erdogan non è un dittatore. E’ un antidemocratico, tendenzialmente autocrate, una persona politicamente esecrabile, ma non è un dittatore.
Riconoscerlo è importante per motivi scientifici e politici, che poi si confondono tra loro in buona parte. Per motivi scientifici, della scienza politica, non lo è perché le definizioni non combaciano: in Turchia ci sono ancora le elezioni, politiche e amministrative. Alcune di queste Erdogan, pur tentando di ribaltare i risultati con metodi antidemocratici, le ha perse ripetutamente, le grandi città turche sono guidate da esponenti dell’opposizione, il suo partito non ha neanche la maggioranza in Parlamento. In Turchia esiste ancora il diritto di manifestare, anche se farlo espone al pericolo reale di finire in galera. Così come accade a tanti giornalisti, ma esiste ancora un pur piccola, quota di stampa libera nel Paese.
Una dittatura, dal punto di vista della scienza politica, è cosa diversa: non ci sono elezioni (se non, in alcuni casi, per un partito unico) non si può manifestare, non esiste la stampa di opposizione, non esistono partiti di opposizione.
Definire bene le cose è importante perché la confusione non ha mai aiutato ad affrontare correttamente e risolvere un problema. Le generalizzazioni, come in questo caso, fanno più il gioco di chi si fa beffe delle regole democratiche che di chi le difende.
E definire bene le cose permette di vedere, di capire, che degli spazi di opposizione democratica ancora esistono in Turchia, e che dunque su questi si deve lavorare per favorire una caduta, per via democratica, di Erdogan. Dire che in Turchia c’è un dittatore è anche un po’ non ascoltare le voci che si levano, chiudere un discorso che invece è aperto, disarmare le migliaia di giovani, di giornalisti, di politici, che con grande coraggio tentano di sfruttare quegli spazi che tutt’ora esistono per affermare la loro contrarietà al governo di Erdogan, la loro voglia di libertà.