In solo un anno, tutto è cambiato in Myanmar. A gennaio del 2020 Yangon, la capitale commerciale, aveva tutte le caratteristiche per diventare il prossimo hub produttivo e industriale del Sudest asiatico, una sorta di piccola Bangkok per intendersi. Tutti credevano nelle potenzialità di questa città giovane e in rapida crescita. Negli ultimi dieci anni, investitori cinesi, americani, giapponesi, europei e sudcoreani hanno fatto a gara per aggiudicarsi una fetta di questo nuovo mercato e dare il via ad attività e progetti del tutto nuovi per un paese che negli ultimi 60 anni è stato tenuto all’oscuro del progresso e da ciò che accadeva nel mondo; le compagnie straniere hanno tentato di farsi spazio in ogni business, dalle infrastrutture e le costruzioni al turismo, dall’agricoltura all’energetico e estrazione di petrolio e gas, dal digitale alle grandi catene di fast food, dall’editoria al tessile.
Questa ondata di innovazione a 360 gradi ha anche dato l’opportunità a una popolazione giovanissima e dedita al lavoro di poter sfruttare le offerte del mercato e finalmente approcciarsi a nuove culture, di cui per molto tempo si è saputo ben poco, se non per quei pochi cooperanti internazionali e businessman che erano riusciti ad addentrarsi in Myanmar durante la rigida dittatura militare del dopoguerra. La popolazione Birmana è per natura aperta, ottimista e in costante movimento, a Yangon tutti si danno da fare con qualsiasi tipo di attività che possa generare un piccolo guadagno giornaliero. Le persone in Myanmar sono consapevoli, come altre popolazioni del Sudest asiatico, che lo straniero giunge in questa terra promessa anche per sfruttare le innumerevoli risorse naturali e umane che il paese offre. Spesso gli sguardi che si incrociano per strada sono diffidenti, ma basta un saluto per trasformare un’aria di sfida in un sorriso accogliente e curioso.
L’apertura del Myanmar verso il mondo è associata esclusivamente a un nome, Aung San Suu Kyi, figlia di Aung San, generale birmano che condusse il paese all’indipendenza dopo il colonialismo inglese, e icona democratica, anche se non tutti sono d’accordo, per il popolo birmano. La “Lady” di Yangon, come Suu Kyi è nota al mondo, è occidentale d’adozione. Dopo aver studiato prima a Oxford, poi a New York, ha iniziato la sua carriera per le Nazioni Unite e tornò in Myanmar per motivi familiari nel 1988, ma le ragioni del suo ritorno andavano ben oltre. In quell’anno in Myanmar un movimento studentesco all’avanguardia e ben consapevole dei propri diritti si rivoltò contro il regime militare autoritario, esigendo la fine del sistema totalitario. La rivoluzione dell’88 si concluse con una feroce repressione dei manifestanti da parte dei militari, ma Suu Kyi e il suo partito, la National League for Democracy, emersero come i veri leader del paese, conquistando oltre l’80% dei voti alle elezioni del ’90. La giunta militare rifiutò di riconoscere il risultato elettorale e la Lady fu costretta agli arresti domiciliari, una sorte che condizionò il leader di fatto del Myanmar per i futuri 20 anni.
Il copione si ripete
Il Myanmar si apre ufficialmente al mondo nel 2015, anno in cui Suu Kyi ottiene nuovamente una vittoria elettorale schiacciante. Questa volta però, i militari non misero i bastoni tra le ruote ai piani di internazionalizzazione del pavone danzante, simbolo del partito di Suu Kyi. Questo accadde perché i Generali, negli anni in cui la Lady era relegata tra le mura di casa, trovarono il modo di avere il controllo sul Paese nel caso in cui non sarebbero stati loro a governare direttamente. Nel 2008, il governo militare istituì una nuova costituzione. Questa assegna a priori il 25% dei seggi parlamentari, che tecnicamente rappresenta una minoranza di blocco, i 3 ministeri chiave della Difesa, dell’Interno e degli Esteri e significativi poteri legislativi al Tatmadaw, l’ordine militare in Myanmar. Per i generali, tutto era pronto per utilizzare la National League for Democracy di Suu Kyi per attrarre gli interessi dei grandi investitori esteri, che da tempo avevano gli occhi puntati su un paese chiave come il Myanmar, ponte tra Cina e India. Negli ultimi 5 anni, non solo ci fu una rapida crescita economica ma ci furono anche notevoli progressi per i diritti fondamentali: molte testate locali e internazionali furono più libere di condurre le proprie indagini giornalistiche e i governi occidentali aumentarono considerabilmente i fondi destinati alle organizzazioni internazionali per lo sviluppo e l’aiuto umanitario.
Questo periodo di fervore terminò pochi mesi fa, con le elezioni di novembre 2020. Già da settembre, le bandierine rosso scarlatto della National League for Democracy sventolano dai balconi dei palazzi e dai tettucci dei tantissimi risciò che pervadono le strade di Yangon, mentre enormi immagini della Lady sorridente occupavano gli spazi pubblicitari più grandi della città. Suu Kyi, per la seconda volta consecutiva, ottenne una vittoria elettorale schiacciante con oltre l’80% delle preferenze. Un risultato oltre le aspettative che non solo confermò la totale devozione cittadina per la Lady di Yangon, almeno da parte della popolazione Bamar – il gruppo etnico prevalente in Myanmar, ma portò alla luce l’odio delle nuove generazioni, ora ben consapevoli di ciò che accade nel mondo e figlie della digitalizzazione, verso i militari, che da troppo tempo condizionano le libertà di un popolo. Una sconfitta popolare e politica che Ming Aung Hlaing, comandante delle forze armate birmane e artefice del coup eseguito l’1 febbraio 2021, non ha mai saputo accettare, assalito dall’angoscia di perdere la presa sui vasti interessi economici nel paese. Il generale accusò Suu Kyi di frode elettorale e, appellandosi a due articoli della costituzione che consentono alla giunta di prendere le redini del paese nel caso in cui ne venga minata la stabilità politica, dichiarò stato di emergenza per un anno, promettendo una nuova votazione, trasparente e pluralista, che dia vita a un nuovo governo civile.
Che ruolo hanno le grandi potenze internazionali in tutto ciò? La sede della National League of Democracy, nonché residenza di Suu Kyi, si trova in centro a Yangon e si affaccia sull’Inya Lake, il grande lago urbano e famoso punto di ritrovo per una passeggiata dopo lavoro o un drink nel week-end. I vicini della maestosa villa della Lady sono l’ambasciata americana e quella sudcoreana. Ma non bisogna lasciarsi ingannare dalla vicinanza di queste istituzioni per capire quale sia la principale influenza estera in Myanmar. L’ambasciata cinese è a più di mezz’ora di taxi dalla reggia della Lady, ma la vasta area occupata dalla sede diplomatica di Beijing confina con il palazzo del parlamento regionale di Yangon, difronte alla mole dorata della Shwedagon pagoda, onnipresente simbolo religioso per eccellenza della città e del Myanmar. Negli ultimi dieci anni, seguendo la tesi del Wall Street Journal, le strategie delle due super potenze mondiali nel paese sono state agli antipodi; mentre gli americani hanno tentato di trasformare il Myanmar in un alleato democratico e difensore dei diritti umani, la politica di non interferenza cinese negli affari domestici birmani ha permesso a Beijing di concentrarsi unicamente sui propri interessi economici.
Due visioni che sono chiaramente emerse anche in risposta al coup, con gli Stati Uniti che condannano aspramente le azioni dei militari e la Cina che si defila. Nel periodo tra il 2010 e il 2015, quando il Myanmar si apre al mondo con il volto di regime semi-democratico, il sostegno di Washington e dell’occidente è fondamentale per questa delicata transizione. Nonostante la Cina continuasse ad avere la parte del leone degli scambi commerciali con il Myanmar, Suu Kyi iniziava a prendere le distanze dal gigante asiatico, visto di cattivo occhio sia dall’establishment americano che dalla popolazione birmana. Nel 2011 il governo birmano sospende dunque i lavori da quasi 4 miliardi di dollari della mega-diga Mytsone, cavallo di battaglia dei piani espansionistici di Beijing nello stato del Kachin, a nord del Myanmar, a confine con lo Yunnan cinese. In più la Cina gioca un ruolo molto scomodo per i militari in Myanmar, finanziando diversi gruppi etnici armati per avere un ritorno economico in aree chiave del paese. Tra tutti, la superpotenza è nota per fornire armi alla famigerata Arakan Army, milizia che opera nello Stato del Rakhine a confine con il Bangladesh, per intralciare gli interessi indiani sul golfo del Bengala.
Il ménage à trois tra America, Cina e Myanmar viene stravolto nel 2017, quando il Tatmadaw intraprese un’operazione brutale di “pulizia etnica” dei Rohingya. La popolazione musulmana è originaria del Rakhine ed è stata storicamente privata di ogni diritto fondamentale e fortemente intollerata dalla maggioranza dominante buddista in Myanmar. Il massacro ha costretto la minoranza etnica a fuggire in Bangladesh, nel campo profughi di Cox Bazar vivono ora oltre 800.000 rifugiati nel degrado assoluto. Quando Suu Kyi si rifiutò di condannare apertamente il genocidio di fronte alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aia nel 2019, Stati Uniti e Europa voltarono le spalle al Myanmar. Era il momento giusto per Beijing di riproporsi come grande protettore verso il tortuoso cammino per il progresso. Senza troppe sorprese, la prima visita estera del presidente Xi Jinping nel 2020 era proprio in Myanmar. I due leader asiatici inauguravano l’anno del Topo con 33 accordi per futuri progetti commerciali. Ora, mentre il mondo occidentale condanna il putsch, la Cina non si espone e rimane fedele ai propri principi diplomatici. La nuova generazione in Myanmar è figlia dell’innovazione tecnologica e utilizza Facebook come principale mezzo di comunicazione. Ben consapevole della velocità con cui le immagini e i video delle repressioni brutali in seguito al putsch avrebbero fatto il giro del mondo, è difficile pensare che la giunta abbia agito senza avere le spalle ben coperte.
L’Europa ha sempre seguito la scia degli Stati Uniti, tentando di esportare il modello democratico occidentale in Myanmar. Ora Bruxelles, come Washington, invoca il ritorno del governo civile di Suu Kyi, ormai detenuta non si sa dove da quasi due mesi, si schiera con il movimento di disobbedienza civile che sta letteralmente mandando in tilt l’economia del Paese e implora lo stop alla violenza. Chiaramente, la richiesta non è stata presa in considerazione da Min Aung Hlaing. Le Nazioni Unite riportano ad oggi che la repressione dei dimostranti ha causato circa 130 morti e oltre 2.400 arresti; è difficile però conoscere le cifre esatte dal momento che i militari hanno un grande controllo sull’informazione e l’accesso a internet. Oggi i ministri degli affari Esteri europei si incontrano nel cuore dell’UE anche per definire meglio come colpire i canali finanziari dei leader della giunta; dal 2019, Bruxelles ha imposto un embargo sulla vendita di armi in Myanmar e sanzioni economiche su una ristretta cerchia di militari per violazione dei diritti umani contro i Rohingya. Il compito di oggi sarà molto arduo. Myanmar Economic Corporation e Myanmar Economic Holding Limited sono i due imponenti conglomerati militari, con importanti partecipazioni dai servizi bancari ai fondi di pensione della stessa giunta, dal tabacco al turismo e alle attività di estrazione mineraria. E’ difficile pensare che gli sforzi diplomatici di Bruxelles e Washington possano realmente compromettere i business miliardari oscuratamente ramificati dalla giunta in ogni settore del Paese.
L’impressione è che la comunità internazionale resti a guardare mentre proprio i valori che si è impegnata a diffondere in Sudest asiatico vengono calpestati brutalmente. Non solo, questa indifferenza mostra come la rilevanza dei rapporti tra Occidente e Cina sovrasta di gran lunga l’importanza delle relazioni con il sud-est asiatico; ne è un esempio l’accordo globale su investimenti e commercio raggiunto tra Bruxelles e Beijing a gennaio 2021.