Roma – Della chiusura imminente di Klubradio, voce critica del governo ungherese guidato da Viktor Orban, abbiamo parlato con il deputato del PD Filippo Sensi che ha depositato un interrogazione al ministro degli Affari esteri, Luigi Di Maio. La questione dello
stato di diritto e del rispetto dei principi fondanti dell’Unione europea “è tutt’altro che chiusa” e torna nuovamente di attualità nonostante la mediazione trovata a fine 2020 nell’accordo sul bilancio pluriennale.
Sensi, di che cosa è accusata esattamente Klubradio e perché tra qualche giorno chiuderà ?
“La radio dalla nascita è stata sempre osteggiata dal governo Orban perché è da sempre una voce critica. Non è la prima volta che si trova in questa situazione. In precedenza le erano tagliate le frequenze solo per la cttà di Budapest, un’altra volta c’era stato uno scontro con per la percentuale di musica ungherese trasmessa, in forza di delle leggi di marca nazionalista. Insomma ogni volta c’era sempre qualche cavillo, una precarietà che limitava anche gli introiti pubblicitari. L’ultima vicenda è la sospensione della licenza di nuovamente per questioni burocratiche. Il ricorso al tribunale però ha dato torto a Klubradio dalla mezzanotte del 15 febbraio le trasmissioni saranno interrotte”.
L’organizzazione Reporter senza frontiere ha fatto precipitare l’Ungheria nell’indice delle libertà di stampa. Ma questa è l’ultima di una serie di iniziative contestate a Viktor Orban.
“Assolutamente sia per la concentrazione della proprietà dei media, sia per il contrasto alle testate indipendenti. Ungheria ma anche la Polonia per questi motivi sono sotto la lente di chi verifica costantemente il pluralismo dell’informazione e la libertà di stampa. È chiaro che quando questi diritti vengono compressi e messi in difficoltà attraverso cordate proprietarie vicine al governo, ciò non depone a favore dei principi di uno stato di diritto”.
Intanto anche in Polonia i media scioperano in massa contro una nuova tassa imposta dal governo denunciandola come “un’estorsione mascherata da tassa sui colossi del web”.
“Si tratta di stratagemmi per mettere in difficoltà le voci critiche senza ricorrere in maniera diretta alla censura. Strumenti che poggiano sula burocrazia, modi dilatori, trucchi procedurali, tutti escamotage sufficienti a far morire le voci dissidenti. Sono questioni che hanno animato il dibattito europeo sullo stato di diritto finite al centro della trattativa sull’erogazione condizionata dei fondi europei. C’è stata una mediazione ma la realtà è che alla fine i giornali chiudono, le tv sono assorbite dalle grandi proprietà vicine al governo, le radio vengono spente”.
Ecco questo è il punto: l’UE avrebbe a disposizione l’articolo 7, la procedura contro quei Paesi che violano i principi e valori istitutivi della stessa Unione. È un’arma sufficiente o spuntata?
“In quella vicenda della trattativa sul bilancio e il Recovery fund, è stato inserito uno step ulteriore con il vaglio preventivo della Corte di giustizia, un modo per diluire i tempi dell’intervento contro i Paesi a cui viene contestata la violazione. La mediazione è stata importante ma resta la preoccupazione e dal punto di vista del rispetto dei diritti la questione è tutt’altro che chiusa. Quello che sta succedendo con le proteste in Ungheria e Polonia sostenute anche a livello europeo lo dimostra”.