Bruxelles – Sul caso Klubradio la Commissione europea “non esiterà a prendere provvedimenti, qualora necessari”, si apprende dalle parole di un portavoce intervenuto durante il briefing giornaliero con la stampa. La sentenza del tribunale metropolitano di Budapest, che ha confermato la revoca delle licenze all’emittente radiofonica ungherese disposta dall’Autorità nazionale dei media, sta creando nuovo allarme a Bruxelles. Una vicenda che, fa sapere l’esecutivo europeo, “aggrava le preoccupazioni emerse dall’ultimo rapporto di diritto sulla libertà di espressione e sul pluralismo”.
Bruxelles nutre il timore che dietro una decisione giustificata dal non parziale rispetto di alcuni adempimenti alla legge ungherese da parte dell’emittente, si celi in realtà la volontà di sopprimere “l’ultima emittente pubblica ungherese risparmiata dal controllo del governo di Viktor Orbàn” (così l’aveva definita negli ultimi giorni l’Associazione Nazionale Ungherese dei Giornalisti).
Ufficialmente, Klubradio sarà costretta a interrompere le sue trasmissioni in radiofrequenza dalla mezzanotte di lunedì 15 febbraio, per non aver presentato una relazione richiesta dall’Autorità di settore ungherese e per non dato il giusto spazio alla musica ungherese nel suo palinsesto. Mai prima d’ora però tali infrazioni erano state tali da provocare un provvedimento del genere nel Paese. Gli stessi vertici di Klubradio non riescono a darsi altra spiegazione per una decisione “vergognosa e codarda”, se non quella che evidenzia l’intenzione di penalizzare l’emittente per aver ospitato frequentemente le voci critiche nei confronti del governo di Orbàn durante i suoi talk show radiofonici.
Allo stesso tempo gli ultimi eventi portano ancora una volta Bruxelles nell’occhio del ciclone per l’incapacità di garantire il rispetto dei valori dello stato di diritto sanciti dall’articolo 7 del Trattato del Trattato dell’Unione Europea. “La battaglia di Klubradio non può restare solo una vicenda ungherese, ma deve rappresentare una nuova sfida di tutti gli europei per non segnare un precedente pericoloso per il futuro”, hanno dichiarato in un’interrogazione parlamentare i deputati nazionali del Partito Democratico Filippo Sensi e Lia Quartapelle, sollecitando il Ministro degli Esteri italiano Luigi Di Maio sull’accaduto.
Di giro di vite sulle libertà di stampa si è parlato anche in Polonia. Dalla mattina di mercoledì 10 febbraio le principali tv e radio indipendenti polacche hanno interrotto le loro trasmissioni e un gran numero di testate hanno oscurato per 24 ore le pagine dei loro siti web per protestare contro l’introduzione di una nuova tassa sull’editoria introdotta dal governo e attualmente in attesa del voto in parlamento. Con la motivazione di ricavare risorse da destinare alla sanità e alla cultura, agli editori viene richiesto di pagare un’imposta compresa tra il 2 e il 15 per cento degli introiti pubblicitari a seconda della grandezza della testata. Il primo ministro Mateusz Morawiecki ha tentato di spiegare anche che l’iniziativa sarebbe un modo per colpire le grandi multinazionali del web, ma ha aggirato le polemiche di chi gli ha fatto notare che gli effetti della nuova tassa ricadranno direttamente sugli organi di stampa.
In una lettera fatta recapitare allo stesso Morawiecki gli editori hanno espresso tutto il loro disappunto per un’operazione che dal loro punto di vista punta a schiacciare l’indipendenza dei media nel Paese, come ha affermato senza dubbi Adam Bodnar, il difensore civico dei diritti umani in Polonia. “È semplicemente un’estorsione”, hanno scritto le 43 testate firmatarie della lettera. “Undici anni fa in Ungheria ci fu una protesta simile quando fu annunciata l’approvazione della nuova legge sulla stampa”, ha commentato il pluripremiato giornalista di inchiesta ungherese Szabolcs Panyi.
Sta facendo molto discutere anche una sentenza del tribunale di Varsavia che ha ordinato a due storici, Jan Grabowski e Barbara Engelking, di scusarsi con la nipote di un uomo citato dai due accademici in un loro libro scritto (“Notte senza fine”) che documenta le complicità dei cattolici polacchi durante l’Olocausto. L’anziana donna aveva denunciato nel 2018 i due ricercatori per aver diffamato suo zio Edward Malinowski, indicandolo come “corresponsabile della morte di diverse decine ebrei” all’epoca in cui era sindaco del comune di Malinowo. Il giudice ha condannato Grabowski ed Engelking per aver diffuso informazioni inesatte e per aver ignorato una sentenza del Dopoguerra che aveva scagionato l’ex sindaco.
Il verdetto ha sollevato numerose critiche in virtù dell’operazione di ripulitura storica che l’attuale governo starebbe svolgendo rispetto al ruolo esercitato dalla Polonia durante la Seconda guerra mondiale. Nel 2018 il Senato polacco aveva approvato una legge, poi modificata, che vietava la libertà di espressione sulla complicità del Paese nello sterminio degli ebrei. La stessa nipote di Malinowski ha richiesto la consulenza durante il processo della Lega polacca contro la diffamazione, associazione che mira a proteggere la Polonia da un’ingiusta rappresentazione della sua storia.
E non è tutto. L’ultima missione del Consiglio d’Europa sullo stato del rispetto dei diritti delle persone LGBT ha svelato che un terzo degli enti regionali e locali nel Paese hanno adottato delle risoluzioni per dichiararsi “zone libere dall’ideologia LGBT”. Nonostante in alcuni casi tali dichiarazioni siano state ritirate, il Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa si è detto preoccupato dell’atteggiamento assunto dal governo e dal parlamento in Polonia rispetto alle discriminazioni basate sugli orientamenti sessuali e sull’identità di genere.