Bruxelles – The Game. C’è qualcosa di sadico a definire un “gioco” quello che si avvicina piuttosto a una roulette russa sulla pelle di essere umani. Ognuno dei 50.863 migranti che nel 2020 hanno percorso la rotta balcanica (dati UNHCR) sa che cos’è The Game. Ma ancora meglio lo sanno le 22.550 persone che da maggio 2019 a oggi sono state vittime dei pushback, i respingimenti illegali operati da un Paese UE alla frontiera esterna per impedire a un migrante l’accesso al territorio e la protezione internazionale (dati Danish Refugee Council).
Funziona così: si parte dalla Bosnia ed Erzegovina o dalla Serbia – le ultime frontiere prima della fortezza-Europa – con destinazione la stazione di Trieste. Si “vince” se si riesce a raggiungerla senza imbattersi nei controlli delle polizie croata, slovena e italiana. Se si viene intercettati, allora si è rispediti a ritroso dall’Italia alla Slovenia, dalla Slovenia alla Croazia, dalla Croazia alla Bosnia o alla Serbia. Con una buona dose di violenze da parte della polizia di confine croata, allo scopo di dissuadere sia chi ha tentato di “giocare” sia chiunque altro fosse tentato dalla partenza.
È necessario tenere a mente l’illegalità e la portata di questa pratica, nel momento in cui si cercano i responsabili della crisi umanitaria in Bosnia dopo l‘incendio del campo profughi di Lipa del 23 dicembre scorso. Secondo la Commissione Europea “la situazione è inaccettabile, le autorità locali devono mantenere in vita le strutture a disposizione”, ha ripetuto a più riprese l’alto rappresentante per gli Affari esteri e la politica di sicurezza, Josep Borrell. Il commissario per la Gestione delle crisi, Janez Lenarčič, ha rincarato la dose sostenendo che “la Bosnia avrebbe dovuto implementare la politica migratoria con le adeguate soluzioni che l’UE suggerisce da anni”.
Il governo della Federazione di Bosnia ed Erzegovina non ne esce certo pulito, avendo ricevuto proprio dall’Unione Europea 88 milioni di euro in fondi dal 2018 a oggi per aiuti e alloggi a migranti e rifugiati. Ma, nello stesso momento, la Commissione sembra stia giocando allo scaricabarile nei confronti della Bosnia, delegando a un Paese fragile, diviso e instabile il compito di risolvere un problema che la stessa Unione non vuole affrontare sul suolo comunitario: quello di gestire il flusso migratorio della rotta balcanica e mettere in piedi un sistema di accoglienza all’altezza.
Non solo una questione di soldi
La Commissione Europea in queste settimane sta facendo leva sul fatto di aver fornito l’assistenza economica di cui il governo di Sarajevo aveva bisogno per gestire i campi profughi sul suo suolo (88 milioni di euro, più altri 3,5 in arrivo). Di questi fondi, dal giugno 2018 l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (IOM) ne ha ricevuti 76,85 milioni. Alla fine di dicembre 2020 sono stati spesi 51,56 milioni di euro per l’assistenza umanitaria, il supporto alle istituzioni bosniache e l’allestimento di sette centri di accoglienza per migranti. Quasi due terzi dei fondi UE sono già stati effettivamente utilizzati in Bosnia.
Quello di Lipa era un campo di tende d’emergenza da mille posti, ma occupato da circa 1.500 migranti. L’IOM aveva annunciato che, a causa della non idoneità delle condizioni per l’inverno, avrebbe chiuso il campo proprio il 23 dicembre, giorno dello scoppio dell’incendio che lo ha distrutto. Nel cantone di Una Sana, nel nord-ovest del Paese al confine con la Croazia, sono presenti altri quattro centri temporanei gestiti da IOM nei dintorni della città di Bihać: quello di Sedra (capacità di 430 posti, occupato da 357 persone a ottobre 2020), di Miral (700 posti, tutti occupati), di Borici (258 su 580) e di Bira, un centro da 1.500 posti-letto chiuso dalle autorità bosniache e ancora non attivo. Nel cantone di Sarajevo si trovano gli ultimi due campi, ben oltre il limite di capacità: quello di Ušivak (860 persone per 800 posti) e di Blažuj (2.874 su 2.400).
A questi vanno aggiunti due campi cosiddetti “informali” (cioè formatisi spontaneamente sul confine), quelli di Vučjak e Velika Kladuša, e gli innumerevoli jungle camps nei boschi e negli impianti industriali dismessi. Silvia Maraone dell’associazione Ipsia Acli testimonia dalla Bosnia che “di tutti i migranti che erano ospitati a Lipa, 600 si sono diretti verso i campi di Sarajevo e di Bihać, mentre gli altri 900 sono ancora tra gli scheletri del campo bruciato dove l’esercito ha allestito delle tende temporanee”. Qui “manca l’acqua corrente e i pasti sono distribuiti una volta al giorno dalla Croce Rossa, noi forniamo vestiti, scarpe, legna e usiamo cannoni spara-aria per riscaldare gli ambienti”.
L’UNHCR stima un flusso migratorio sulla rotta balcanica in Bosnia di quasi 16 mila persone solo nel 2020. “Dalla primavera del 2018 la regione di Una Sana è diventata il collo di bottiglia della rotta balcanica“, spiega Maraone, in un Paese “schiacciato tra il flusso in ingresso da Serbia e Montenegro e quello di ritorno dal confine croato dopo i respingimenti”. Al Parlamento Europeo ci sono grosse perplessità sul tipo di supporto offerto dall’UE. “Alla Turchia abbiamo dato 6 miliardi di euro, alla Bosnia 88 milioni”, ha ricordato la presidente della sottocommissione per i Diritti umani, Maria Arena, nel corso di una conferenza organizzata venerdì scorso (15 gennaio) dal collega Pierfrancesco Majorino. “Non possiamo chiedere a quel Paese di gestire tutto il flusso migratorio di cui noi non vogliamo occuparci sul nostro territorio”. E soprattutto c’è il discorso del rispetto dei diritti umani: “Parlare solo di soldi non basta, già a febbraio dello scorso anno una delegazione del gruppo S&D si è recata in Bosnia e ha chiesto la fine dei pushback sul confine croato”.
Scheletri nell’armadio europeo
Analizzando l’emergenza umanitaria della rotta balcanica, il termine pushback ritorna ciclicamente. E non può essere altrimenti. Come riporta la rete di associazioni “RiVolti ai Balcani” nel suo dossier I migranti senza diritti nel cuore dell’Europa (in pubblicazione il primo febbraio), due migranti su tre che sono stati respinti illegalmente al confine con la Croazia hanno subito una qualche forma di violenza e pratica di tortura da parte della polizia di frontiera croata (dei 22.550, tra maggio 2019 a dicembre 2020). Per il possibile mancato controllo del “meccanismo di monitoraggio” dei diritti umani in Croazia, la mediatrice europea Emily O’Reilly ha avviato un’indagine contro la Commissione UE su denuncia di Amnesty International lo scorso 10 novembre.
“Il governo croato, non potendo più negare, sostiene che non si tratta di militari e poliziotti, ma di civili armati che pattugliano la frontiera”, ha raccontato nel corso della conferenza di venerdì il giornalista di Avvenire Nello Scavo, che nelle scorse settimane si è recato sul confine bosniaco-croato. “Noi non ne abbiamo trovati, ma siamo stati fermati, perquisiti e rimandati indietro da poliziotti croati in tenuta antisommossa sul suolo bosniaco”. Bisogna poi ricordare che le persone extra-comunitarie che cercano di entrare in territorio UE dalla Bosnia alla Croazia in realtà hanno già fatto precedentemente ingresso nell’Unione, attraverso la Grecia. Il cammino verso il cuore dell’Europa è obbligato e le costringe a uscire di nuovo, percorrendo Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Bosnia.
Ammesso e non concesso che alcuni di loro riescano a eludere i controlli croati, sono altre due le frontiere da cui possono essere respinti, quella slovena e quella italiana. Qui non si tratta di pushback, ma di procedure di riammissione, “accordi che risalgono ai tempi della guerra in ex-Jugoslavia”, ricorda con amarezza Scavo. Il 24 luglio scorso, in risposta all’interrogazione parlamentare dell’onorevole Riccardo Magi, il ministero dell’Interno italiano ha messo nero su bianco che qualsiasi migrante privo di richiesta di protezione internazionale sia rintracciato sul confine sloveno è automaticamente riammesso in Slovenia, “anche qualora sia manifestata l’intenzione di richiedere protezione internazionale”. Con questa motivazione l’Italia negli ultimi sette mesi ha respinto 1.300 persone e lo stesso ha fatto la Slovenia verso la Croazia (circa 10 mila in totale). “È così che si crea il tappo”, ha spiegato il vicepresidente dell’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (ASGI), Gianfranco Schiavone. “È la prima volta che un governo ammette di impedire le richieste di asilo senza provvedimenti formali e notificati, così che nessuno possa nemmeno impugnarli”, ha accusato. “Qualcosa che va contro i principi dello Stato di diritto”.
Lo scopo di tutta questa strategia è impedire l’accesso al territorio dell’Unione Europea a migliaia di persone (che avrebbero altrimenti diritto di presentare domanda di asilo) e confinarle in Bosnia. Mentre, nello stesso momento, altri migranti percorrono dalla Grecia verso nord la stessa rotta. “La Bosnia ha le sue responsabilità, ma non si capisce perché dovrebbe essere stata incaricata dall’Unione di diventare l’ultima frontiera impermeabile prima della fortezza-Europa“, incalza Scavo. “Respingere queste persone e versare soldi a un Paese extra-UE per non farle arrivare da noi è il modo più semplice di nascondere i problemi dell’Europa”. Ormai si sta configurando “non solo un dramma umanitario, ma anche quello di un continente che era la culla dei diritti umani e che in Bosnia rischia di diventarne la terapia intensiva”.
Europarlamentari all’attacco
Una delle voci più critiche a Bruxelles nei confronti dell’operato negli ultimi anni della Commissione e del Consiglio riguardo la politica dell’accoglienza è quella di Pierfrancesco Majorino, eurodeputato italiano del gruppo S&D. “Dobbiamo rompere il discorso dell’Europa come una fortezza assediata, un’Unione che che presidia ed esternalizza i propri confini per limitare il presunto danno dell’immigrazione”, ha dichiarato in un’intervista per Eunews. “La Bosnia è il racconto di scelte sbagliate a livello europeo e noi europarlamentari possiamo intervenire a cambiarla”. Come? “Prima di tutto usando il Parlamento Europeo come cassa di risonanza: stiamo preparando una delegazione di parlamentari che si recherà in Bosnia molto presto. E poi bisognerebbe respingere il Piano della Commissione fino a quando non sarà cambiato”.
Gli fa eco con decisione la presidente della sottocommissione Diritti umani del Parlamento Europeo, Maria Arena: “Questa non è l’Europa dei valori in cui crediamo, che sono umanità, solidarietà, diritti e protezione”. Al contrario, “per Commissione e Consiglio le parole d’ordine sono sicurezza interna e protezione dei confini”. L’atto di accusa è verso il Patto per l’immigrazione, “qualcosa che non possiamo accettare come è stato fatto, non c’è solidarietà organizzata”. Da qui parte la sfida del Parlamento UE: “Lavoriamo per fare battaglie e cambiare la posizione delle istituzioni europee. Tutti i gruppi progressisti devono unirsi per porre fine a interessi poco puliti dell’Europa in Paesi instabili e fragili”.
Non è solo una questione di soldi. Non può ridursi a giorni che passano tra le polemiche, mentre i millecinquecento di Lipa e gli altri migliaia di migranti nei campi improvvisati sul confine con la Croazia vivono in condizioni ai limiti dell’umanità, bloccati tra fiumi ghiacciati e nella neve del gennaio bosniaco. Accettare che esista The Game, un gioco sulla pelle di chi cerca protezione nel continente che fu culla dei diritti umani, è già una sconfitta per l’Unione Europa.
Trovi un ulteriore approfondimento nella newsletter BarBalcani, curata da Federico Baccini