Bruxelles – Più Unione Europea nella Salute pubblica. Il tema ricorre e torna a essere attuale dopo la pubblicazione dell’ultima relazione della Corte dei Conti europea che analizza la prima risposta dell’Ue alla crisi pandemica del Covid-19. Un’analisi che non è un audit, sottolineano i revisori di Lussemburgo, perché in sostanza non c’è un giudizio di merito sull’operato dell’UE nell’affrontare l’emergenza, ma solo una prima riflessione sulle azioni messe in campo, su cosa non si è fatto e su cosa invece dovrebbe essere fatto meglio.
Troppo presto per verificare le azioni in corso o valutare l’impatto delle iniziative, mentre gli stati europei ancora lottano con difficoltà contro il virus e con le sue varianti. Ma secondo i revisori di Lussemburgo queste esperienze possono fornire insegnamenti per eventuali “riforme future delle competenze dell’UE in questo settore”. Per questo è bene iniziare a raccoglierle per svilupparci un dibattito. Ecco qui che torna il tema di riformare le competenze dell’Unione in materia di Sanità, che il Trattato sul funzionamento dell’UE attribuisce quasi esclusivamente agli Stati membri. “L’Unione europea ha dovuto rapidamente adottare, oltre alle misure rientranti nelle sue competenze formali, altri interventi volti a sostenere la risposta della sanità pubblica alla crisi sanitaria, e non era cosa facile”, ammette Joëlle Elvinger, responsabile dell’analisi.
Mancanze, ritardi, carenze di competenze. L’Unione Europea è stata fortemente criticata soprattutto all’inizio e accusata di una risposta troppo lenta alla pandemia. Ma anche adesso viene colpevolizzata per la lenta approvazione da parte dell’Agenzia europea per i medicinali (EMA) dei vaccini contro il Covid e per la sua strategia di vaccinazione diversificata, che punta su diverse tecnologie sanitarie per lo sviluppo di potenziali vaccini.
Da Lussemburgo scrivono che la pandemia da COVID-19 ha messo alla prova come nulla prima d’ora il ruolo dell’Unione Europea nella gestione delle crisi sanitarie. Ma precisano che il quadro giuridico sulle competenze dell’Ue in materia di risposta alle minacce sanitarie transfrontaliere, come appunto questa pandemia, risale al lontano 2013 e, in linea con gli obblighi del trattato, è molto limitato: prevede solo che l’Ue possa sostenere le azioni degli Stati membri, il loro coordinamento, un’attività di facilitazione stipulando, ad esempio, contratti quadro per gli appalti pubblici (come la Commissione ha fatto nel caso dei dispositivi medici e di sicurezza) e sulla raccolta di informazioni e valutazioni dei rischi attraverso l’ECDC, il Centro europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie.
Un quadro giuridico vecchio di ben otto anni. Ma già in una relazione di audit più recente del 2016, la Corte aveva rilevato le debolezze del quadro giuridico di riferimento per affrontare gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero. Alcuni dei problemi che venivano segnalati allora, come la pianificazione della preparazione alla crisi, si sono rivelati tuttora molto attuali e obbligano a una riflessione su se sia il caso di aggiornarli.
Sul versante dei finanziamenti, la Corte ha raccolto un po’ di dati e informazioni sulle azioni di Bruxelles: la Commissione ha finanziato una serie di azioni, tra cui la ricerca e gli accordi
preliminari di acquisto per i vaccini con una parte del bilancio comunitario. A metà del 2020, l’UE ha assegnato 4,5 miliardi di euro alle misure in materia di Sanità pubblica e ha reso ammissibili ai finanziamenti della politica di coesione le spese sanitarie pubbliche connesse al Covid. Al 30 giugno 2020 – con 1,5 milioni di infezioni registrate in Ue, Regno Unito e Spazio economico europeo e 177.000 decessi – l’uso dei fondi era ancora in una fase iniziale. Nello specifico circa 547 milioni di euro dal bilancio sono stati stanziati entro giugno per la ricerca sullo sviluppo di test, trattamenti e vaccini potenziali, mentre la Commissione ha anche stanziato 1,5 miliardi di euro per finanziare accordi di acquisto anticipato con i produttori di vaccini.