Gli accordi post Brexit sulle relazioni future tra l’Ue e il Regno Unito, conclusi alla vigilia di Natale, già firmati dalle parti e approvati dal Parlamento britannico, sono entrati in vigore provvisoriamente dalla mezzanotte (le 23 di Londra) del 31 dicembre, in attesa della ratifica da parte del Parlamento europeo (attesa a marzo) e della successiva adozione finale da parte del Consiglio Ue.
Gli accordi sono probabilmente il miglior risultato possibile nelle circostanze in cui sono stati negoziati e conclusi. Scongiurano una separazione netta, immediata e “disordinata” in mercati distinti per due grandi economie finora fortemente interdipendenti, senza un quadro di regole concordate e meccanismi di cooperazione. Uno scenario che avrebbe bloccato in gran parte gli scambi e penalizzato fortemente le imprese e i cittadini, con notevoli dazi alle frontiere che sarebbero stati imposti “di default” sugli scambi di merci secondo le norme dell’Organizzazione mondiale del Commercio (Wto): 50% e più per la maggior parte dei prodotti agroalimentari, 25% per il pesce trasformato, 10% per le auto, 12% per i prodotti tessili e 17% per le calzature.
L’accordo commerciale e di cooperazione, in particolare, è riuscito ad assicurare l’obiettivo principale per lo scambio di merci, il principio ‘zero dazi e zero quote doganali’. E sebbene in alcuni altri settori sia previsto comunque un taglio netto, una vera e propria separazione dei mercati, riguardo alle merci il Regno Unito resterà in sostanza integrato in quello che un tempo, prima dell’instaurazione del Mercato Unico nel 1993, era il Mercato Comune europeo, ma senza l’Unione doganale.
Tuttavia, questo risultato ampiamente positivo comporta anche una serie di conseguenze paradossali, soprattutto per il Regno Unito.
1) Burocrazia
Al contrario di quanto sostenevano i “Brexiter”, l’uscita dall’Ue comporterà un aumento invece che una riduzione del “red tape”, ovvero delle esigenze burocratiche imposte agli operatori economici, sia britannici che dell’Ue. Questo accadrà in particolare per l’import-export, con il ritorno di moduli, certificazioni, controlli e filtri che il mercato unico aveva eliminato, e con inevitabili e notevoli perdite di tempo alle dogane e costi aggiuntivi per le imprese e per il consumatori.
2) Ostacoli normativi
Fra il Regno Unito e l’Unione, in base all’accordo commerciale e di cooperazione, non ci saranno le barriere tariffarie (dazi e quote); ma torneranno in parte le barriere non tariffarie, ovvero gli ostacoli normativi che il mercato unico Ue ha abolito, con la convergenza e le armonizzazioni o con il riconoscimento reciproco delle norme nazionali. Prima del 1993, proprio per questa ragione il Regno Unito era stato uno degli Stati membri più convinti nel sostenere il passaggio dal mercato comune al mercato unico.
3) Sovranità normativa ripristinata, ma con sanzioni in caso di divergenza
Uno dei risultati più importanti dei negoziati, per il Regno Unito, (e sicuramente uno dei “game changer” che hanno permesso l’accordo, dopo mesi di paralisi) è stato la rinuncia dell’Ue al cosiddetto “allineamento dinamico” delle normative britanniche a quelle del mercato unico europeo, secondo un dispositivo “asimmetrico” . Il modello era quello del See, lo Spazio economico europeo, in cui Norvegia, Islanda e Liechtenstein non possono divergere dalle norme del mercato unico, e devono adeguare le proprie norme pertinenti ogni volta che l’Ue le modifica. E’ stato concordato, invece, un meccanismo “simmetrico” di disincentivazione della divergenza, con compensazioni e rappresaglie commerciali “proporzionate” (l’introduzione di dazi e quote), attivabile da una delle parti in caso di modifiche alle normative sul mercato decise dall’altra parte. Questo significa che la piena sovranità normativa ritrovata dal Regno Unito (una delle richieste essenziali dei “Brexiter”) potrà essere utilizzata solo a spese di un altro obiettivo fondamentale dell’accordo di “free trade”, quello, appunto, dell’azzeramento di dazi e quote.
4) Ritorno delle frontiere per i servizi
Un altro paradosso in questa vicenda è quello della netta prevalenza che è stata data da Londra, durante tutti i negoziati, all’affermazione di un principio politico-ideologico, il recupero pieno della sovranità commerciale e normativa, rispetto agli interessi dell’economia nazionale (oltre che europea) e a scapito delle sue esigenze. E’ rimasto praticamente fuori dall’accordo il settore più competitivo, in cui il Regno Unito aveva gli interessi più evidenti e rilevanti: quello dei servizi (80% dell’economia nazionale. Questo vale in particolare per il settore finanziario, che rappresentava nel 2018 il 6,9% dell’output economico britannico (di cui il 49% generato dalla City di Londra) e 1,1 milioni di posti di lavoro del Paese (il 3,1%) . Fin dall’inizio dei negoziati, l’Ue aveva dato per scontato e inevitabile che gli operatori e i “trader” britannici avrebbero perso il “passaporto finanziario” (che permette di operare in qualunque Stato membro del mercato unico senza avere sedi sul suo territorio), basato sul riconoscimento reciproco della “equivalenza” delle normative. Qui l’unica cosa che hanno ottenuto i britannici è l’impegno reciproco a produrre un memorandum d’intesa che affronti la questione entro il prossimo mese di marzo, ma con un limite chiaro su cui insiste l’Ue: qualunque decisione di concedere o ritirare l'”equivalenza” per le normative finanziarie non può che essere unilaterale, e non soggetta quindi a nessun tipo di vincolo.
Più in generale, per fornire qualunque tipo di servizi in un paese Ue, le imprese britanniche dovranno avere una sede in quel paese ed essere autorizzate secondo le normative nazionali, senza validità negli altri Stati membri. Inoltre, l’accordo non prevede il riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali, e rimanda anche in questo caso a futuri negoziati, limitati e settoriali, eventuali progressi in quest’area.
5) Pesca, sovranità piena solo dal giugno 2026
Le modalità e i limiti di accesso dei pescherecci dei paesi Ue alle acque del Regno Unito hanno costituito uno dei nodi più difficili di tutto il negoziato, e l’ultimo a essere risolto, dopo colloqui diretti fra il premier britannico Boris Johnson e la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen. Il settore della pesca vale appena lo 0,1% dell’economia del Regno Unito, ma rivestiva un valore politico fondamentale per Londra, come simbolo evidente del ripristino della propria sovranità, in questo caso con il controllo pieno delle proprie acque territoriali e di competenza economica esclusiva. Un obiettivo che, in base all’accordo, sarà raggiunto fra cinque anni e mezzo (gli europei chiedevano il doppio), quando non varranno più le quote di pesca dell’Ue, che intanto saranno ridotte gradualmente del 25% (i britannici avevano chiesto prima il 60%, poi il 35%). Solo dal 2026 si potrà rinegoziare tutto, con nuovi accordi sulle quote ogni cinque anni (e possibili restrizioni commerciali in caso di mancato accordo).
6) Le regole d’origine
L’Ue voleva evitare l’invasione sul proprio mercato, senza dazi e senza quote, di merci a basso costo etichettate come britanniche ma in realtà importate da paesi terzi nel Regno Unito e là solo assemblate o impacchettate con un ‘branding’ nuovo di zecca. Proprio a questo serve il complesso e dettagliatissimo dispositivo dell’accordo commerciale basato sulle regole d’origine: perché siano importate nell’Ue merci dal Regno Unito senza dazi e contingenti, gli esportatori dovranno certificare l’origine britannica (o europea) per una quota delle componenti di ogni prodotto che varia a seconda dei comparti, ma che garantisce l’impossibilità, a meno di non commettere frodi, delle triangolazioni con paesi terzi e del rebranding fittizio “Made in Britain”.
7) Accordi commerciali con i paesi extra Ue
La libertà di concludere accordi commerciali con i paesi extra Ue era un’altra delle domande chiave dei “Brexiter”. Ma la piena sovranità riconquistata dai britannici in questo campo non significa che sarà facile conseguire gli obiettivi della “global Britain ” da loro vagheggiata. E per quanto Londra conti molto sui legami del Commonwealth e sul proprio passato di impero marittimo commerciale, sulla “relazione speciale” con gli Usa, sul privilegio linguistico-culturale dell’inglese (di gran lunga la più importante lingua internazionale), in questo tipo di negoziati il fattore più importante per il successo di un Paese è costituito dalle dimensioni della sua economia, e in particolare dall’importanza degli sbocchi commerciali che può offrire e dal volume, oltre che dalla competitività, delle proprie esportazioni.
La scommessa britannica è di spuntare, con il suo mercato di quasi 68 milioni di consumatori, condizioni più vantaggiose di quelle che aveva o che avrebbe ottenuto restando nell’Ue, che con i suoi 450 milioni di abitanti (dopo la Brexit), è la seconda potenza commerciale al mondo (come totale di importazioni ed esportazioni) subito dopo la Cina. In termini di potere d’acquisto (Pps, dati 2017), l’Ue a 27 ha il 16% del totale globale, poco sotto la Cina (16,4%) e gli Usa (16,3%), mentre il Regno Unito ha il 2,5%. Naturalmente, ci sono altri fattori che contano (competitività, capacità di innovazione, dinamicità ed efficienza del sistema produttivo, ruolo nelle catene del valore e di approvvigionamento, eventuale posizione di “first mover”), ed è su alcuni di questi fattori che punta il Regno Unito. Per ora, Londra ha riprodotto tali e quali molti dei 40 accordi commerciali che l’Ue ha con più di 70 paesi. Lo ha fatto firmando accordi bilaterali “di continuità” con 60 paesi (compreso il Canada), mediante un semplice “roll over”, alle stesse condizioni, degli accordi europei. Solo con il Giappone è stato firmato un accordo che secondo il governo britannico “va al di là degli accordi esistenti con l’Ue”. Ma la vera misura del successo della “global Britain” si vedrà dagli eventuali accordi futuri con paesi come gli Stati Uniti, la Cina, l’India, l’Australia, che non appaiono intenzionati a fare sconti.