Nell’ambito del turismo di massa, le piattaforme digitali si sono progressivamente affiancate alle modalità tradizionali di alloggio. Tra queste, la più conosciuta è Airbnb, società statunitense che si è affermata come piattaforma per alloggi di breve termine. Ciò è testimoniato dai circa 750 milioni di utenti che annualmente sono ospiti in più di 7 milioni di alloggi sparsi tra 100mila città nel mondo.
Nel 2017 il fatturato della compagnia americana è stato di 2,6 miliardi di dollari (con un reddito operativo di 450 milioni e un utile di 93), ma parallelamente ai propri profitti la società ha puntato molto a impostare la sua immagine di moltiplicatore di opportunità economiche per molti altri soggetti: le economie locali che beneficiano di un incremento turistico, i consumatori che vedono diversificate le possibilità di alloggio e, infine, i proprietari degli immobili che, affittando una o più stanze, possono contare su un reddito ulteriore.
Tuttavia, sempre più spesso questa immagine è entrata in contrasto con le comunità e le autorità locali. Infatti, Airbnb ha un impatto sulle economie urbane, in primis sul mercato immobiliare. A fronte di benefici, ci sono dei costi che ricadono su chi vive in affitto e, in generale, sui quartieri e le comunità che stabilmente li abitano. L’effetto Airbnb è simile alla dinamica della gentrificazione, in quanto aumenta il valore di una zona urbana a danno dei residenti, la maggior parte dei quali è spinta a spostarsi a causa di inasprimenti finanziari. In particolare, le grandi città sembrano essere maggiormente colpite dal fenomeno. Studi effettuati su città come Amsterdam, Barcellona, Edimburgo e Los Angeles hanno mostrato come l’esplosione turistica facilitata da piattaforme come Airbnb abbia avuto un impatto negativo sul mercato immobiliare per le comunità di residenti locali.
Gli effetti di Airbnb
Gli affitti di breve termine agiscono sul mercato immobiliare diminuendo l’offerta abitativa di lungo termine. Secondo alcuni studi, gli effetti distorsivi si manifestano in due modi:
- Attraverso il meccanismo della “conversione”, ogni alloggio che passa dal mercato long-term a quello short-term influenza le leggi della domanda e dell’offerta, essendo un’unità in meno per il primo e una in più per il secondo, generando un aumento nel prezzo degli affitti long-term;
- Attraverso il meccanismo della “hotellizzazione”, dati i minori costi di transazione e i prezzi più attraenti per le locazioni short-term rispetto al mercato residenziale, vi è per i proprietari di immobili un incentivo all’aggiornamento delle locazioni verso il breve termine.
Tali dinamiche risultano particolarmente accentuate e dispiegano i loro effetti in determinate zone della città, siano esse il centro storico o le semi-periferie interessate da processi di gentrificazione. L’offerta abitativa va man mano riducendosi e i prezzi per gli affitti salgono. I segmenti di popolazione a più basso reddito, i più deboli o le minoranze sono costretti a spostarsi in altre zone, mentre chi resiste si ritrova in un quartiere in cui i prezzi per i servizi crescono a causa della maggior frequentazione di turisti.
Un rapporto pubblicato dalla società di consulenza Capital Economics ha rilevato che gli annunci attivi su Airbnb nel Regno Unito sono aumentati da 168.000 nel 2017 a 223.000 nel 2018: un balzo del 33% che rafforza una quota di mercato significativa nel crescente segmento delle locazioni short-term nel Regno Unito. Il rapporto non mostra neanche il quadro aggiornato a tutti gli operatori del mercato, in assenza di dati per piattaforme concorrenti come Booking.com e Homeaway. Secondo lo studio, inoltre, il 2,7% dei proprietari di immobili del Regno Unito (1,5 milioni di persone) ha già compiuto il passaggio dall’affitto a lungo termine a quello a breve termine. In breve: 50mila case non sono più disponibili per gli affitti di lungo termine; una diminuzione di alloggi per famiglie, lavoratori, studenti o tutte quelle categorie sociali che cercano una sistemazione stabile in un dato contesto urbano. Intervistati per un sondaggio, circa il 10% dei proprietari del Regno Unito ha risposto che sta valutando la possibilità di passare da rapporti di locazione di lungo termine a tipologie di short term. Una ricerca portata avanti dal Guardian sembrerebbe rivelare che in alcune parti del Regno Unito una casa su quattro è un alloggio Airbnb. Sempre il Guardian evidenzia come la presenza di Airbnb in alcuni quartieri delle città spagnole ha spinto gli aumenti degli affitti fino al +50%, costringendo gli affittuari locali a trasferirsi in aree più convenienti.
Nella narrazione che dà di sé al mondo, Airbnb rappresenta un approccio al turismo basato su un genuino network tra persone, siano essi gli ospiti o i proprietari di casa, e un’esperienza turistica più “autentica” rispetto a quella di un hotel. Alcuni studi sembrano contraddire questa narrazione. Un’analisi del 2017 dell’Università di Pisa mostra come la maggior parte dei profitti relativi alle locazioni sia raccolta da un esiguo numero di soggetti, proprietari di più immobili: in poche parole nuovi imprenditori immobiliari nel mercato degli affitti short-term. Per fare alcuni esempi, dalla ricerca emerge come a Firenze gli hosts guadagnino in media più di 5mila euro annui dagli affitti, ma ci sono casi in cui un solo proprietario ha incassato più di 700mila euro; a Milano, circa 4mila proprietari di immobili su Airbnb guadagnano in media 1.600 euro all’anno, ma ci sono casi che superano il mezzo milione di ricavi.
(Approfondimento a cura de Lo Spiegone. Vai sul loro sito per leggere tutto il testo)