Bruxelles – Scuse, paraventi e promesse di un grande futuro fuori dall’Unione Europea sono finite. Brexit è realtà dal primo gennaio e ora il premier britannico, Boris Johnson, dovrà mostrare quali sono i suoi assi per fare grande il Paese “in un anno estremamente importante per il Regno Unito globale“, come lo stesso BoJo ha definito il 2021. L’inquilino di Downing Street è determinato a dimostrare che la Brexit era prima di tutto la piattaforma per rilanciare il ruolo di Londra a livello internazionale, all’interno di una strategia che dovrebbe culminare al vertice del G7 (previsto per giugno). Johnson vorrebbe sfruttare questa occasione per posizionarsi al centro della risposta globale al Covid-19 e diventare uno dei protagonisti nel delineare la strategia di ricostruzione del sistema globale post-pandemia.
Questo prima di un altro appuntamento-chiave del 2021: il vertice sul clima Cop26 (la Conferenza delle parti della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici), che si terrà a Glasgow nel mese di novembre. Nelle intenzioni del premier britannico, questo evento dovrebbe amplificare la sua agenda interna, inclusi gli investimenti in nuove tecnologie verdi e la riconversione ecologica delle regioni lasciate indietro dalla globalizzazione. Ma anche dare una risposta chiara alla Scozia, tornata alla carica con rivendicazioni indipendentiste e con la porta tenuta aperta per un futuro ritorno nell’Unione Europea.
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“Brexit ha reso la Gran Bretagna una forza liberale che guarda all’esterno”, ha affermato con vigore il premier Johnson. Anche se nel frattempo l’accordo di Natale ha tagliato fuori i territori d’oltremare che hanno rapporti speciali con il Regno Unito, tra cui le Isole Falkland: l’Argentina potrebbe essere rimessa nelle condizioni per rinvigorire nuovamente le sue pretese su quelle che a Buenos Aires vengono chiamate Islas Malvinas.
Sfide per il governo Tory che si pongono nel futuro a breve/medio termine. Nel frattempo devono essere risolti problemi che la questione Brexit ha posto nell’immediato, in particolare negli scambi di persone e merci tra il Regno Unito e il continente europeo.
Problemi di viaggio
In ordine cronologico, l’ultimo problema emerso in questi giorni è legato alle possibilità di spostamento per i cittadini britannici sul suolo comunitario. Dal primo gennaio i Paesi Bassi hanno respinto 10 extra-comunitari provenienti dal Regno Unito che cercavano di entrare nel Paese “senza un motivo urgente, come lavoro o gravi problemi familiari”, ha spiegato la portavoce della polizia di frontiera olandese. Considerate le restrizioni di viaggio per la pandemia Covid-19 applicate ai cittadini extra-UE in ingresso nell’Unione, dalla fine del periodo di transizione lo scorso 31 dicembre anche i cittadini britannici “non saranno autorizzati ad entrare nei Paesi Bassi per scopi non essenziali“, visite di piacere incluse. È il primo effetto Brexit. “Tuttavia, la misura non si applica ai cittadini britannici che risiedono legalmente nei Paesi Bassi”, ha precisato la portavoce, “che invece potranno rientrare nel Paese, a condizione che dimostrino la residenza”.
Un’altra questione di viaggio è stata riscontrata da parte di alcuni britannici espatriati in Spagna, che nello scorso fine settimana hanno cercato di raggiungere le proprie case, ma sono stati bloccati all’aeroporto londinese di Heathrow. La compagnia aerea Iberia ha impedito a otto passeggeri di salire sul volo Londra-Madrid delle ore 10.55 di sabato 2 gennaio, non riconoscendo i documenti di soggiorno pre-Brexit. Nonostante le assicurazioni da parte del governo britannico e di quello spagnolo che sia il vecchio documento di identificazione nazionale straniera sia la nuova carta d’identità straniera hanno validità per il viaggio, la compagnia di bandiera spagnola ha rigettato la carta verde in uso fino al 31 dicembre. Su Twitter, l’ambasciata britannica a Madrid ha ribadito che entrambi i documenti sono validi per il ritorno a casa dei britannici residenti in Spagna.
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Episodi che dimostrano la confusione che regna tra operatori di volo e cittadini, creata da un accordo tra UE e Regno Unito raggiunto a solo una settimana dalla fine del periodo di transizione. Restrizioni di viaggio causa-Coronavirus a parte, per spostarsi da e per le isole britanniche è ora necessario un passaporto con almeno sei mesi di validità rimanente prima del viaggio.
Terminata la libertà di movimento garantita anche durante il periodo di transizione, non è necessario il visto solo per soggiorni inferiori ai 90 giorni: questo riguarda in particolare i cittadini britannici che hanno una seconda casa in uno dei Paesi UE. Per chi arriva sul continente in auto, è richiesto invece un certificato di assicurazione UE, oltre a una patente di guida internazionale. Chi viaggia con animali, dovrà procurarsi un certificato sanitario.
Manica sotto osservazione
Per quanto riguarda gli spostamenti su gomma, la categoria più colpita è quella degli autotrasportatori. L’attenzione è tutta puntata sulla Manica: l’accordo UE-Regno Unito ha sì evitato il ritorno dei dazi, ma non quello dei controlli alla frontiera. La Road Haulage Association (associazione di categoria degli autotrasportatori britannici), ha previsto 220 milioni di nuovi moduli che dovranno essere compilati ogni anno per garantire il transito delle merci tra i due lati dello stretto di Dover. Burocrazia aggiuntiva, sul controllo dei passaporti e dei permessi di circolazione, che rischia di rallentare sensibilmente il traffico sul canale, attraversato ogni giorno da 60 mila passeggeri e 12 mila mezzi pesanti.
Non è un caso se alcuni rivenditori online specializzati in vari paesi dell’Unione Europea hanno annunciato di aver sospeso momentaneamente le consegne agli indirizzi del Regno Unito, a causa di costi più elevati e una maggiore burocrazia per conformarsi alle autorità fiscali britanniche. Il caso è stato sollevato da due aziende, l’olandese Dutch Bike Bits e la belga Beer On Web, che hanno denunciato i cambiamenti introdotti da HM Revenue and Customs (il dipartimento governativo britannico responsabile della riscossione delle imposte). Per garantire che le merci provenienti da Paesi UE e non-UE siano trattate allo stesso modo dalle autorità britanniche, i rivenditori esteri che inviano merci nel Regno Unito devono registrarsi per l’IVA nel Regno Unito e rendere conto all’HMRC se il valore di vendita è inferiore a 150 euro. “Per fornire questo servizio, l’HMRC intende addebitare una commissione all’azienda“, si legge sul sito di Dutch Bike Bits. “Se ogni Paese del mondo decidesse di comportarsi allo stesso modo, dovremmo pagare 195 tasse diverse ogni anno e inviare pagamenti a 195 uffici diversi”. Altre aziende europee si sono comportate nello stesso modo, sospendendo le consegne nel Regno Unito “fino a quando l’intero processo post-Brexit non sarà completato”.
I servizi finanziari
Un altro grosso nodo da sciogliere nei prossimi mesi per il premier Johnson è quello che riguarda l’industria dei servizi finanziari, che vale circa il 7 per cento del PIL britannico. Nell’UE ha uno dei principali mercati, per un giro d’affari stimato di circa 33,2 miliardi di euro all’anno. Johnson aveva chiesto di lasciare fuori dalle trattative questo settore, in modo da chiudere in fretta l’accordo prima di Natale. Le ripercussioni per le aziende britanniche si traducono in una negoziazione all’interno di un mosaico di ventisette regolamenti dei singoli Paesi UE. Questione che ha costretto le principali banche con sede nel Regno Unito a trasferire le proprie attività e posti di lavoro nelle capitali finanziarie europee per evitare interruzioni.
Nei prossimi mesi alcuni negoziati specifici dovranno regolare la gestione dei servizi finanziari: il primo termine fissato è marzo 2021, ma sul rispetto di questa scadenza (come l’accordo post-Brexit ha insegnato) tra gli operatori di settore c’è parecchio scetticismo. L’unico modo in cui l’industria dei servizi finanziari del Regno Unito può mantenere il suo accesso all’Unione Europea come nello scenario pre-Brexit è se Bruxelles deciderà di concedere l’equivalenza normativa: una classificazione garantita solo se il Regno Unito rimarrà nell’orbita normativa UE per i servizi finanziari. L’ex-premier Theresa May ha espresso la sua delusione per il fatto che l’accordo di Johnson non abbia incluso questo settore: “Nel 2018 ho detto che volevamo lavorare per ottenere un accordo sui servizi finanziari nel futuro Accordo di recesso e che sarebbe stato rivoluzionario”, ha dichiarato. “Lo sarebbe stato, ma purtroppo non è ancora stato raggiunto”.