Bruxelles – Cinque giorni, novantuno ore, venti minuti. È il tempo che i leader europei hanno impiegato a luglio per trovare un compromesso sul Bilancio pluriennale (2021-2027) a cui legare il fondo di ricostruzione europea dalla pandemia Covid-19. Un accordo, consolidato non senza difficoltà solo a dicembre, che rappresenta forse la più grande eredità della presidenza di turno tedesca alla guida dell’Ue, la 13esima in tutto per la Germania e l’ultima con Angela Merkel a capo della cancelleria di Berlino.
Sei mesi di presidenza e un virus che ha costretto la Germania a tenere solo il 25 per cento delle riunioni ministeriali e dei vertici in presenza, in rare occasioni. Il 30 giugno sulla Porta di Brandeburgo veniva proiettato per la prima volta il motto della presidenza tedesca del Consiglio Ue, “Insieme per la ripresa dell’Europa”, come a voler mettere bene a fuoco l’unica vera priorità per quei sei mesi di presidenza: bilanciare l’impatto economico della crisi sanitaria e la sopravvivenza dell’Eurozona.
Con l’accordo di luglio si può dire che Angela Merkel e il suo ambasciatore all’UE Michael Clauss abbiano contribuito a trovare una risposta comune alla crisi forse più grave che l’Unione abbia vissuto, e che ha rischiato in più momenti di dividerla. Il pacchetto per la ripresa è tanto importante non solo per la portata economica (oltre 1.800 miliardi di euro) ma perché fondato su idee che erano impensabili per l’Europa comunitaria fino a qualche mese prima della crisi da Coronavirus: ovvero finanziare la ripresa con l’emissione di centinaia di miliardi di euro di obbligazioni comuni garantite dagli Stati membri attraverso il bilancio comunitario. E alla Germania va il merito di aver aiutato a sbloccare prima le reticenze dei quattro Paesi frugali (Paesi Bassi, Austria, Danimarca e Svezia), contrari a una mutualizzazione del debito, e poi quelle di Ungheria e Polonia, che fino all’ultimo hanno cercato di evitare l’introduzione di un meccanismo a tutela dello stato di diritto legato al bilancio.
Forse il più grande, ma non l’unico successo della presidenza di Berlino. Passi avanti sono stati fatti in materia di clima, una delle priorità della Commissione von der Leyen, trovando una posizione politica per rendere vincolante un nuovo obiettivo climatico per il 2030 che prevede il taglio delle emissioni di gas a effetto serra di almeno il 55 per cento rispetto ai livelli del 1990. L’intesa tra i leader arriva la mattina dell’11 dicembre, si raccolgono i frutti di una intensa nottata di negoziati al Vertice europeo per cui “è valsa la pena lavorare fino a notte fonda”, sostiene la Merkel, e che ha permesso ai leader di convergere sull’obiettivo climatico intermedio, che andrà ora finalizzato con il Parlamento Europeo approvando in blocco la Legge europea sul clima.
E ancora. Superato lo scoglio del bilancio, l’anno europeo si chiude con il tanto atteso accordo commerciale per regolare i rapporti bilaterali tra UE e Regno Unito dopo la Brexit. Come per il Bilancio, anche la scadenza dell’accordo commerciale con Londra era ben nota e quasi dovuta, ma visto quanto si sono protratti i negoziati non era scontato che si arrivasse a un accordo per un’uscita ordinata dal mercato unico e dall’unione doganale a partire da gennaio 2021. I lavori sono continuati quasi a pieno ritmo durante le vacanze di Natale per permettere alle istituzioni di chiudere con Londra prima dell’anno nuovo.
Investimenti con la Cina, lieto fine sul filo di lana
La presidenza tedesca può vantare un altro importante risultato, raggiunto all’ultimo momento utile. Il 30 dicembre viene annunciato il raggiungimento di un’intesa politica di principio per gli investimenti con la Cina. E’ il risultato di un negoziato condotto per sette anni dalla Commissione europea, con la presidenza tedesca del Consiglio che ha sostenuto attivamente il processo nel corso del ‘suo’ semestre. Grazie all’opera di sostegno e mediazione alla fine le imprese europee potranno trasferirsi in Asia a fare affari, senza essere discriminate, nei settori del trasporti aereo (sistemi di computeristica, servizi di terra, e segnaletica) automobilistico (inclusa auto elettriche e ibride), sanità (quella privata), telecomunicazioni.
Sulle migrazioni la Germania non trova solidarietà
Se pure con un’agenda politica così condizionata dal Coronavirus, sono stati tanti i punti messi a segno dalla Germania di Merkel, che all’inizio del semestre considerava “un successo” anche solo l’idea di chiudere i negoziati su Brexit e sul Quadro finanziario pluriennale. Altrettanti però ce ne sono che Berlino lascia in sospeso sulle spalle dei suoi successori, Portogallo (gennaio-giugno 2021) e anche Slovenia (luglio – dicembre 2021). È mancata l’unità di trovare in così poco tempo (soli tre mesi) un accordo politico sul nuovo Patto per l’immigrazione e asilo proposto dalla Commissione a settembre per riformare il Regolamento di Dublino. Gli Stati sono tutti d’accordo sul lavorare a una nuova politica migratoria comune, ma non abbastanza su come farlo. Secondo la presidenza tedesca, progressi si sono registrati ma non sufficienti da fare concreti passi avanti per un accordo.
Sulla necessità di rafforzare i controlli alle frontiere esterne, su una gestione più efficiente dei rimpatri e sulle “migrazioni sicure” c’è già una buona convergenza. Posizioni distanti rimangono quando si parla dei meccanismi di condivisione della solidarietà e responsabilità nonché del peso della gestione dei flussi sui Paesi di primo ingresso, come l’Italia, la Spagna e Malta, che chiedono più garanzie. All’ultima riunione dei ministri (metà dicembre) è emerso chiaramente che per un accordo sul nuovo Patto potrebbe volerci ancora molto e non è detto che riesca ad arrivare sotto la presidenza di Lisbona. In soli tre mesi più di tanto non si poteva fare e la pandemia non è stato d’aiuto a Berlino che è riuscita a organizzare poche riunioni in presenza, mentre un accordo su un tema complesso come la politica migratoria comune richiede uno sforzo negoziale maggiore, sfruttando a pieno anche la possibilità di un confronto dal vivo.
Il 2020 sembrava poi il momento giusto per sbloccare il processo di allargamento dell’Unione Europea con l’avvio formale dei negoziati di adesione con Albania e Macedonia del Nord, ma il veto posto dalla Bulgaria a novembre ha messo in stallo il quadro negoziale, costringendo anche Berlino a prendere atto, con rammarico, del fallimento. “Speriamo che sotto la presidenza portoghese ci sia una svolta decisiva per arrivare al consenso unanime”, ha detto il ministro tedesco per gli Affari Europei, Michael Roth, all’ultimo vertice con gli omologhi europei. C’è di buono, ha sottolineato il ministro, “che c’è un solo Paese ad essersi dichiarato contrario”, e quindi c’è una buona possibilità che lo stallo sia superato già con la prossima presidenza di turno.
La Conferenza sul futuro dell’UE non parte, un problema di leadership
Il 2020 doveva essere soprattutto l’anno in cui avviare il grande slancio di riforma della democrazia europea attraverso una Conferenza sul futuro dell’Europa, pensata per ricompattare il legame tra cittadini e progetto europeo. Doveva aprirsi simbolicamente lo scorso 9 maggio – la Festa dell’Europa – ma la pandemia ne ha rallentato i preparativi e non solo quella. Per mesi, da quando l’idea di una Conferenza ha preso piede nel Continente, si sono susseguite discussioni tra le Istituzioni su chi dovrebbe guidarla, senza una soluzione.
L’anno europeo e il semestre della Germania si chiudono quindi senza un accordo tra Consiglio e Parlamento sulla leadership e senza una data di inizio. Il Consiglio dell’UE per mesi ha spinto per una autorità indipendente – quindi esterna alle istituzioni europee – mentre il Parlamento ha proposto a più riprese la figura dell’eurodeputato liberale belga Guy Verhofstadt, respinto dai governi perché considerato troppo federalista. A sua volta l’Eurocamera avrebbe respinto la candidatura di Helle Thorning-Schmidt, ex premier di Danimarca ed ex parlamentare europea, che invece sembra aver messo d’accordo i rappresentanti degli Stati membri.
Preso atto che la Conferenza non partirà sotto la guida di Berlino, viene meno anche l’idea simbolica di avviare i lavori della Conferenza sotto la presidenza di Germania e farli finire nel 2022 sotto la presidenza di turno della Francia. Secondo i pochi dettagli tecnici emersi finora, la Conferenza dovrebbe infatti avere durata biennale con una serie di valutazioni intermedie. Era stato proprio il presidente francese Emmanuel Macron a proporre per primo l’idea di una Conferenza per discutere di futuro dell’Europa, poi accolta e fatta propria dal Parlamento europeo.
La scelta su chi far ricadere la guida della Conferenza è tanto importante perché nasconde il vero motivo di scontro tra Europarlamento e Consiglio, ovvero la possibilità di arrivare a modificare i trattati dell’Unione europea nel quadro di questa Conferenza. Il Consiglio dell’UE, nella sua posizione negoziale adottata il 24 giugno, ha chiarito senza lasciare troppi margini di speranza che la Conferenza non si inscrive nelle procedure di riforma dei Trattati. Lasciare la guida della Conferenza in mano a chi ha un’impostazione più federalista, come nel caso di Verhofstadt, per molti Stati membri significa impostare tutti i lavori della Conferenza nell’ottica di mettere mano anche ai Trattati. Cosa che non vogliono fare. Gli eurodeputati, invece, compreso il presidente David Sassoli, hanno chiesto a più riprese di non escludere a priori una revisione dei Trattati, per rendere il progetto di riforma veicolato dalla Conferenza più incisivo. La pandemia, ad esempio, ha reso centrale il dibattito su come costruire una Unione Europea con più competenze in materia di sanità, che invece i trattati lasciano esclusivamente nelle mani degli Stati membri.
Posizioni distanti su cui per ora non si è trovato un compromesso. Complice anche il virus, che rende agli occhi di molti i lavori della Conferenza sacrificabili rispetto ad altre questioni ritenute più urgenti. Con la Conferenza sul futuro dell’Europa doveva essere l’inizio di un cambiamento per l’Unione Europea, ma in fondo proprio a causa della pandemia un cambiamento c’è stato lo stesso e ci si sta domandando ugualmente verso quale futuro l’Europa stia procedendo. L’idea di una riforma del funzionamento democratico europeo si è fatta tanto più urgente con la crisi sanitaria: debolezze, divisioni, mancanze che si sono fatte sentire nel corso di questa emergenza e che hanno reso ancora più importante discutere di futuro dell’Europa, anche senza una vera e propria Conferenza.