Bruxelles – La strada del Next Generation Eu è tracciata, ora c’è da fare l’ultimo scatto. È con parole molto decise che il ministro italiano per gli Affari europei, Enzo Amendola, è intervenuto alla settima edizione dell’evento “How can we govern Europe?”, in un’intervista condotta dal direttore di Eunews, Lorenzo Robustelli. “Per troppi anni negli ultimi decenni siamo stati divisi, ostaggio di veti contrapposti e di politiche mancanti”, ha affondato il ministro. “Non è più il tempo di veti, dobbiamo consegnarli al passato dell’Unione Europea“. Un momento di confronto ad ampio respiro non solo sullo stato del Piano nazionale di ripresa e resilienza dell’Italia, ma anche sulle prospettive europee di rilancio dei suoi obiettivi strategici.
Ministro Amendola, l’accordo di luglio in Consiglio UE sulla risposta alla crisi causata dalla pandemia Covid-19 ha rappresentato un giro di boa verso un’Unione politica?
La pandemia sta accelerando molti processi. Certo, prima di tutto in negativo per le sofferenze delle nostre popolazioni. Ma allo stesso tempo sta rendendo necessario che alcune parole diventino realtà: autonomia strategica europea, investimenti sul Green Deal. Nell’Unione ci stiamo muovendo tutti uniti verso la stessa visione strategica, dalla Commissione alla BCE, il Consiglio e il Parlamento Europeo. I 1.800 miliardi di euro del Next Generation Eu verranno investiti con le stesse modalità in tutti i Paesi membri, per la transizione verde e digitale e per la coesione sociale. Facciamo debito comune, è un obbligo morale che assumiamo tutti insieme.
Ma al momento questi fondi sono bloccati dal veto di Ungheria e Polonia sulle condizionalità. Come potrà essere superato lo stallo?
La via è una sola: il rispetto dell’accordo in Consiglio lo scorso 21 luglio. Sono due i paragrafi che parlano di condizionalità per il rispetto dello Stato di diritto e che tutti Paesi hanno firmato, non è certo una novità. Non c’è bisogno di inventarsi altri accordi intergovernativi, va solo rispettato un indirizzo fondante dell’Unione Europea, un valore che condividiamo. C’è una contraddizione nella posizione di Polonia e Ungheria: se rivendicano di non violare assolutamente lo Stato di diritto, allora non dovrebbero avere nulla da temere.
Questa controversia può rafforzare la posizione di chi sostiene un’integrazione a più velocità, come il presidente francese Macron, rispetto a quelle rappresentate dalla cancelliera Merkel, per un cammino dei Ventisette sempre uniti?
L’Europa ha spiriti, visioni e identità parlamentari molto differenti, è vero, ma quello che ci unisce è che abbiamo scelto un’autonomia strategica con la presidenza di Ursula von der Leyen. Ora è tempo di andare spediti su processi di integrazione più forti. Un esempio è la sanità. A febbraio, quando è scoppiata la pandemia di Covid-19, era una politica relegata alle volontà nazionali. In pochi mesi abbiamo fatto grandi passi avanti per il coordinamento e la condivisione di risorse e progetti. L’Europa dovrà avere sempre più una sua visione, una sua identità e una sua autonomia strategica.
Passiamo ora all’Italia. C’è un forte dibattito sui tempi del Recovery italiano e sulle scadenze del nostro Piano nazionale. Stiamo rischiando di non arrivare in tempo?
No, anche la presidente della Commissione ha dichiarato che l’Italia è sulla strada giusta. Abbiamo presentato le nostre linee guida a settembre. Dopo un mese di lavori in Parlamento, si è arrivati a due mozioni parlamentari per la loro approvazione e la definizione della scala di priorità per le azioni concrete: siamo stati gli unici in Europa. Il 15 ottobre abbiamo aperto il dialogo informale con la task force della Commissione che si occupa dei Piani nazionali di ripresa e resilienza. Questo dialogo andrà avanti fino a quando non sarà ufficiale la data di presentazione. Intanto lavoreremo ancora.
Cioè?
Vogliamo approvare la governance del Piano nazionale. Serve una struttura tecnica che implementi e che renda esecutiva tutta la progettualità, in modo da avere una valutazione di impatto sul PIL, sulla crescita, sull’occupazione e sull’inclusione sociale. Rispetteremo alla lettera il cronoprogramma deciso da Bruxelles e terremo costantemente aggiornato il Parlamento.
La governance del Recovery, di fatto, si sta traducendo in “cabina di regia”. Sembra però che il presidente del Consiglio stia accentrando tutto nelle sue mani. È così?
Direi piuttosto che ci sono diversi livelli operativi. C’è un comitato politico ristretto, un’organizzazione dedicata a tutte le progettualità delle linee guida e una tecnostruttura che per sei anni dovrà reggere l’impatto della pianificazione, realizzazione, rendicontazione e trasparenza a Bruxelles. L’esecuzione che ci richiede Bruxelles ha tempi molto scadenzati e per questo serve una struttura dedicata.
Non pensa ci sia un po’ troppa riservatezza sulle misure che state definendo?
Nessun segreto e nessuna voglia di accentrare. Per esempio, il mio ministero non è un ministero di spesa, quindi non ci possiamo reinventare dalla mattina alla sera esecutori di bandi di gara e procedure di messa a terra delle risorse. È un lavoro tecnico da fare in chiaro dialogo con la Commissione e la sua task force. C’era chi diceva che di fronte a questioni complesse spesso si trovano soluzioni semplici: ma troppo spesso le soluzioni semplici si rivelano sbagliate, perciò bisogna lavorare su una complessità di pianificazione.
L’Unione ci chiede però di fare alcune riforme strutturali. Che garanzie ci sono che questi impegni con Bruxelles vengano portati avanti anche da un prossimo governo?
Tra le Country specific recommendations della Commissione, le due più importanti sono la riforma della pubblica amministrazione e quella della giustizia: sono grandi necessità per il nostro Paese. Abbiamo iniziato con la semplificazione della pubblica amministrazione, e la digitalizzazione darà una forte spinta per modificare il rapporto tra Stato e cittadini. Sulla giustizia, invece, abbiamo iniziato a implementare alcune riforme. Le garanzie per il futuro risiedono nel fatto che, insieme agli investimenti, anche le riforme sono fondamentali per raggiungere gli obiettivi e attingere alle risorse.
Ci può dare alcune indicazioni sulle linee guida nazionali?
È importante comprendere che le filiere sono nette. Per quanto riguarda la politica green, per esempio, destinare il 40 per cento delle risorse significa avere un impatto sulla neutralità climatica, con investimenti sull’economia verde e circolare, soluzioni per problemi nazionali, come il dissesto idrogeologico, e interventi diretti sul patrimonio immobiliare o per la decarbonizzazione del trasporto pubblico. Sui progetti transnazionali, ci sono delle frontiere verdi che meritano investimenti dei singoli Paesi, ma in consorzio con gli altri: uno su tutti, l’idrogeno verde, che ha bisogno di investimenti consistenti per arrivare a realizzare l’autonomia strategica tecnologica voluta dall’Unione Europea.
Ha collaborato Federico Baccini.
(Questo è il testo di una video-intervista registrata il primo dicembre 2020)