Che brutte bestie circolano in Europa. Una, invisibile e vorace, si nutre di cellule umane e, mentre continua da un anno a mietere vittime, sbarella i servizi sanitari dei paesi membri con l’effetto di spingere le autorità a chiusure più o meno invasive della vita sociale e dell’economia reale. Un’altra, agitata da Ungheria e Polonia dentro i palazzi dell’UE, si abbatte sulla procedura di bilancio pluriannuale con la violenza (giuridica) di un’ascia da guerra di barbari venuti da steppe lontane.
In attesa dei vaccini, già annunciati e ormai imminenti, l’arresto del virus, in questo secondo picco dell’autunno del 2020, passa nuovamente attraverso le drastiche misure-barriera che svuotano le piazze e gelano i consumi proprio a ridosso delle feste di fine anno. Sin dall’inizio della pandemia, ogni Paese dell’Unione (e non solo il Regno Unito che ha un piede già fuori dall’UE) si è mosso secondo le proprie esigenze e le proprie decisioni interne, disponendo controlli alle frontiere più o meno severi, chiusure e riapertura a scacchiera e sostegni finanziari ad hoc a sostegno dei redditi e delle imprese nazionali in difficoltà.
Inizialmente, l’UE ha brillato non tanto per la sua assenza, quanto per le sue “sospesioni”. Con mosse tanto rapide quanto strabilianti, il Consiglio ha rimosso temporaneamente il cappio alle finanze pubbliche dei vincoli di Maastricht e la Commissione ha aperto le maglie dei controlli europei sugli aiuti di stato. Due granitici feticci dei Trattati europei sono svaporati in poco tempo come per magia. Poi, in primavera, è arrivata l’artiglieria pesante della BCE. Più che bazooka, i programmi d’acquisto riattivati tempestivamente dalla Banca centrale sono come potenti pompe idrovore volte ad assorbire masse ingenti di titoli pubblici e privati sui mercati, con l’effetto di sostenere l’economia tenendo bassi i tassi d’interesse e gli spread.
In estate, dopo un dibattito e un negoziato a volte pernicioso tra cicale e formiche, finalmente i Governi dei Paesi membri hanno trovato un accordo su un sostanzioso pacchetto di aiuti finanziari europei proposto dalla Commissione, per sostenere l’economia e l’occupazione, puntando sull’innovazione e il cosiddetto green deal. Si tratta di uno stimolo fiscale importante in termini quantitativi e qualitativi che, peraltro, per la prima volta nella storia comunitaria, consentirà all’UE di emettere debito europeo per finanziare investimenti.
In autunno, dopo le ultime schermaglie negoziali tra il Consiglio e il Parlamento europeo, pareva che il pacchetto noto come Next Generation avesse ormai raggiunto la sua dirittura d’arrivo per le ratifiche finali, ma ecco che Ungheria e Polonia hanno deciso di porre il veto in Consiglio, bloccando l’approvazione del bilancio pluriannuale. Paradossalmente, il veto, misura legittima e prevista dai Trattati in vigore, è stato posto dai due Paesi guidati da esecutivi sovranisti accusati dall’UE di avere adottato leggi che violano lo stato di diritto nei loro paesi. Ungheria e Polonia non hanno digerito che il Parlamento europeo abbia ottenuto che nessun fondo del bilancio europeo possa andare a Paesi non in linea con i valori fondamentali dell’UE. E per questo hanno deciso di opporsi all’approvazione finale di un accordo dal quale politicamente dissentono. Gli europeisti hanno gridato allo scandalo. L’Europa non è un bancomat, hanno riassunto con uno slogan efficace.
E cosi, mentre la gente muore e l’economia langue, l’ombra di due “signor no”, come nel Racconto di Natale di Dickens, si erge in modo sinistro sulle anguste pareti della casa comunitaria. I sindaci di Varsavia e Budapest, entrambi oppositori dei rispettivi governanti, hanno provato a spiegare ai loro concittadini che il blocco del bilancio europeo danneggia in primis proprio ungheresi e polacchi. Ma purtroppo pare finora con scarsi risultati. E chissà se la Grande Cancelliera riuscirà a dipanare la matassa, ottenendo un meritato successo sul filo di lana del semestre di Presidenza tedesco che scade a fine anno.
Ma intanto dove sono le voci dei partiti europei? Cosa dicono e cosa fanno le famiglie politiche che raccolgono democraticamente il consenso dei popoli europei? Stride alquanto che il premier ungherese faccia parte ancora dei popolari europei, ma proprio questa appartenenza dovrebbe consentire di sciogliere le sue irricevibili riserve nazionalistiche. Il dibattito interno al partito, in questo momento di crisi, dovrebbe far leva sulle coscienze e fornire valore politico all’agire europeo, contribuendo concretamente a superare contraddizioni e impasse.
Nel frattempo, la rapida corsa ai vaccini rincuora i dirigenti e gran parte della popolazione europea, facendo anche sobbalzare le borse. La fine del tunnel, sebbene ancora lontana, sembra ormai apparire all’orizzonte del 2021. La Commissione europea, per la prima volta, ha avuto la possibilità di stipulare per conto dell’Unione i contratti con le case farmaceutiche, esprimendo cosi un peso negoziale molto più rilevante rispetto a quello dei singoli stati membri in concorrenza tra loro. Questo sembra raccontarci la vicenda dei vaccini. La pandemia ha avuto e sta avendo l’effetto di mettere in risalto le molte fragilità e le grandi potenzialità dell’Europa. Quando i Paesi membri si muovono in ordine sparso, sembra che l’UE sia solo un’entità di facciata, uno sgangherato recinto con una bandiera a 12 stelle. Quando invece gli europei lavorano in armonia, secondo visioni politiche basate sui valori comuni e non solo su ristrette visuali nazionalistiche, non ci sono divisioni, veti né virus che alla fine possano averla vinta.
L’inverno di un anno per molti versi da dimenticare è ormai arrivato ma, sebbene non si sappia ancora se i Paesi membri riusciranno a coordinarsi per l’apertura o meno della stagione sciistica per le feste di fine anno, appare evidente che la vera prova dell’Europa al culmine della crisi passi attraverso le provette dei laboratori; e, soprattutto, attraverso il prezioso lavoro collettivo che da Bruxelles alle regioni, passando per le capitali, sarà svolto con cura per salvare quante più persone possibile ed uscire dalla stagnazione arginando stabilmente la pandemia. Dopotutto, nel medio e lungo periodo, non sarà il rimpianto delle mancate discese natalizie sulla neve né il ricordo di spregiudicati veti al bilancio, ma sarà piuttosto l’indelebile memoria di una sofferta e corale onda di solidarietà che gli europei trasmetteranno con orgoglio e gratitudine alla prossima generazione.