Bruxelles – Dalla lotta alla pandemia ai negoziati difficili sul prossimo Bilancio europeo a lungo termine, dalle ambizioni climatiche alla lotta al terrorismo. “Solo quando uniamo le forze riusciamo a fare progressi concreti”, dice Ursula von der Leyen di fronte all’Aula del Parlamento europeo riunito in plenaria. È un appello all’unità e al senso di responsabilità quello della presidente della Commissione europea in vista del Consiglio europeo del 10 e 11 dicembre, quando i capi di Stato e governo dovranno sbloccare alcune questioni che sono in stallo, prima tra tutte quella sul Bilancio a lungo termine e fondo di ripresa. “È solo quando negoziamo duramente e poi ci atteniamo ai compromessi trovati, che andiamo avanti meglio”.
Il riferimento è all’accordo negoziato e concordato non senza difficoltà a luglio dagli Stati membri, attualmente bloccato dal ricatto di Ungheria e Polonia che si oppongono alla condizionalità dello stato di diritto. Per la presidente un vincolo tra risorse di bilancio e tutela dello stato di diritto “è appropriato, proporzionato e anche necessario. È difficile immaginare che qualcuno in Europa possa obiettare”. Eppure qualcuno lo ha fatto. E a loro von der Leyen si appella invitandoli a “rivolgersi alla Corte di giustizia europea” dove di solito si risolvono “i disaccordi in materia giudiziaria e non a spese di milioni di europei che aspettano con urgenza il nostro aiuto”. I cittadini europei “muoiono temendo per il proprio lavoro”, ci tiene a ricordare la presidente. “Anche in Polonia e in Ungheria”.
Sbloccare i negoziati sul bilancio è fondamentale per accelerare la ripresa dalla pandemia su cui in Commissione si lavora per un approccio coordinato sulle riaperture e il rilassamento dei lockdown per le vacanze di Natale. L’invito agli Stati è sempre quello della prudenza e a non rilassare le restrizioni troppo rapidamente: “Dobbiamo imparare dall’estate e non ripetere gli stessi errori”, dice la presidente. E mette in guardia su una possibile terza ondata dopo Natale. “Anche questa è una questione di solidarietà tra Stati membri”, sostiene.
Ottimista sul fronte dei vaccini. “I primi cittadini europei potrebbero già essere vaccinati prima della fine di dicembre”, sostiene ma sottolinea che gli Stati membri devono accelerare con i loro piani per la vaccinazione, che dovrebbero arrivare sul tavolo della Commissione entro la fine di novembre per essere valutati dall’ECDC. Agli Stati il richiamo a prepararsi “la logistica per l’eventuale dispiegamento di centinaia di milioni di dosi”. Perché – sottolinea- questo è l’unico modo che abbiamo per uscire da pandemia.
Nel corso del dibatto i gruppi politici al Parlamento europeo si sono mostrati compatti sul non voler fare passi indietro sui negoziati già conclusi con il Consiglio in materia di bilancio e quindi sull’accordo sullo stato di diritto. Non c’è più tempo di riaprire i termini negoziali concordati a luglio, con il rischio dietro l’angolo di entrare nel 2021 in esercizio provvisorio di bilancio e ritardare ancora l’entrata in vigore dei programmi europei.
“Non è tempo per gli egoismi nazionali”, ricorda il capogruppo PPE, Manfred Weber. “In Europa c’è ansia, preoccupazione, i cittadini non sanno come trascorreranno le vacanze di natale. Il Consiglio europeo di dicembre sarà l’occasione per fornire orientamento” in questo senso. Al Partito Popolare Europeo, di cui fa parte il partito Fidesz di Viktor Orban chiede coraggio la capogruppo S&D Iratxe Garcia Perez affinché assuma una posizione più decisa contro il premier di Budapest. Come gruppo S&D “continuiamo a insistere su un meccanismo che leghi i fondi di bilancio e lo stato di diritto” dice, chiarendo che “non modificheremo nemmeno una virgola del negoziato con il Consiglio. Ce lo chiedono i cittadini, non è questo il momento di scegliere tra il bilancio e lo stato di diritto”.
“L’Europa non deve essere ‘tenuta in ostaggio’ da coloro che si comportano come despoti. Ci sono europei da est a ovest, da nord a sud, determinati a vivere la loro vita governati da un stato di diritto che rispetta le loro libertà “, ribadisce anche Dacian Ciolos dei liberali di Renew Europe. Al prossimo Vertice europeo di dicembre – l’ultimo presumibilmente prima del 2021 – “bisognerà fare uno scatto in avanti sul veto di Budapest e Varsavia”, concorda anche Simona Bonafé, europarlamentare dem tra i Socialisti e Democratici.
“Vergognoso che si usi strumentalmente il diritto di veto per far del male all’Europa tutta e a 440 milioni di cittadini che aspettano il Recovery Fund per poter continuare a vivere, a lavorare, a sognare e a sentirsi parte di una comunità che proprio ora deve mostrare tutta la sua forza”, rincara anche Dino Giarrusso, deputato del Movimento 5 Stelle. Si scaglia poi contro Giorgia Meloni e altri colleghi di Fratelli d’Italia dentro il gruppo dell’ECR: “ma come fate a fraternizzare con chi oggi blocca i soldi degli italiani?”, chiede retoricamente in riferimento alla nota familiarità del partito di Orban con Meloni. Familiarità che potrebbe essere rinsaldata se alla fine il PPE, gruppo maggioritario in Parlamento, decidesse di espellere Fidesz dalle sue file. “Prendete le distanze ora da chi sta giocando sulla pelle dei nostri figli per meri, squallidi interessi politici. I nostri cittadini hanno diritto a quei soldi, assumetevi le vostre responsabilità”, ha concluso Giarrusso.
Su una posizione opposta Marco Zanni (Lega), presidente del gruppo Identità e Democrazia, secondo il quale “si punta il dito su due Paesi che mettono il veto legittimamente, ma le regole devono valere da entrambe le parti: chi chiede il rispetto dello stato di diritto perché è un pilastro fondamentale dei trattati deve anche rispettare poteri e modalità di esercitarli che vengono garantiti ai Paesi da trattati e regole. Era chiaro già a luglio che Polonia e Ungheria avrebbero posto il veto, ma la maggioranza in Ue ha deciso scientemente di andare avanti e di provocarlo”. Per l’esponente sovranista “ci sono responsabilità chiare nei ritardi da entrambe le parti e nella maggioranza di questo Parlamento che ha deciso di proseguire su un meccanismo politico punitivo che nulla ha a che fare col rispetto dello stato di diritto”.